di Redazione OAR
«Parlare del futuro della città, oggi, è complicato. Rischiamo di dare vita a distopie, mostri urbani figli del dramma che stiamo vivendo. Penso sia più utile, invece, parlare di cittadini: ‘L’uomo è il punto zero del mondo’, diceva Michel Foucault. Dobbiamo costruire la nostra città, allora, non sull’uomo che cambia, ma sul modo in cui lui la cambierà».
È la premessa – alla sua riflessione sul futuro delle città dopo il Coronavirus – fatta da Massimo Alvisi, cofondatore, insieme a Junko Kirimoto, di Alvisi Kirimoto Architects, studio – nato nel 2002 – che si è spesso confrontato con il tema della rigenerazione urbana su diverse scale, sia a livello nazionale che all’estero.
Nel processo di trasformazione dei centri urbani è innegabile il ruolo delle tecnologie. «Le innovazioni – osserva l’architetto – sono la rete in cui ci muoveremo. Usandole, rinnovandole, aggiornandole in un processo evolutivo. Avremo città che respirano come un organismo assecondando i flussi dell’aria e l’energia solare, edifici che si aprono e chiudono in base alla luce e all’inquinamento, all’energia da recuperare o dissipare; ma anche luoghi pubblici in grado di monitorare chi vi entra, purtroppo. Strade sempre più belle, prive di traffico e più verdi». Ma è questa – si chiede Alvisi – la città che immaginiamo per il nostro futuro o è soltanto un meraviglioso corredo tecnologico?
Il rischio è che le grandi città – prosegue – «stiano diventando tutte uguali, e forse lo saranno sempre di più. Modelli costruiti su un’unica unità di misura. Ma non certo sui nostri desideri, sulle nostre vite, su come vorremmo viverle, trasformarle, sulla necessità di lasciare aperto il campo alla contrapposizione, ai contrasti, alla creatività locale».
Gli architetti, in questo scenario, avranno un ruolo fondamentale. «Sono i sensori del cambiamento – afferma Alvisi -: per questo bisogna «attivarli, renderli trasmettitori e strumenti per la trasformazione, estendendo tale azione non soltanto alla città, ma all’intero territorio, al paesaggio che lo circonda». E conclude: «La città dovrà tornare ad essere nuovamente avventurosa e non prevedibile, la cui conoscenza sia possibile solo attraverso la scoperta, perché dovrà essere fatta di relazioni e non di rete».
(FN)