di Redazione OAR
Guardare oltre la banalizzazione generata dalla situazione di emergenza. Difendere l’originalità del progetto realizzato dall’architetto, con la sua capacità di tenere insieme estetica, ergonomia, personalizzazione. Con un obiettivo fondamentale: puntare al benessere delle persone. Sono alcune delle riflessioni di Livia Comes, fondatrice dell’omonimo studio di progettazione con base a Roma, sul tema degli spazi di lavoro ai tempi del Coronavirus.
«Mi viene in mente – inizia Comes – un progetto del 1969 dell’architetto austriaco Hans Hollein», che ideò il Mobile Büro, un ufficio portatile e gonfiabile contenuto in una valigetta. Attrezzato con macchina da scrivere e telefono. «Una sorta di ‘bolla’ che forse allora già rappresentava l’esiguità del confine tra lo spazio pubblico e lo spazio privato. Qualcosa che stiamo vivendo adesso. E che sicuramente anticipa quello che oggi chiamiamo nomadismo digitale, ovvero il fatto che possiamo lavorare dappertutto».
Gli architetti, oggi, «dovrebbero riuscire ad evitare accuratamente le banalizzazioni verso cui ci stanno spingendo l’emergenza e l’urgenza dell’attuale emergenza epidemiologica», afferma la progettista. «La difesa dell’identità di chi abiterà l’opera – prosegue – e, quindi, dell’originalità del progetto, è qualcosa che andrebbe sempre perseguita sopratutto nei periodi di tempesta perfetta. Mi chiedo quindi perché non indagare, non prendersi un po’ di tempo in più per esplorare approfonditamente la frontiera più critica di questo cambiamento: lo spazio privato, l’home office».
Da un paio di anni, spiega Comes, lo studio si occupa, tra le altre cose, di progettazione e realizzazione di spazi di lavoro. In questo ambito, «stiamo cercando di mettere a punto soluzioni complete che, pur rispondendo a criteri di economicità, soddisfino l’estetica, l’ergonomia e la personalizzazione, perché pensiamo che una delle responsabilità dell’architetto sia la cura del benessere delle persone. Certo, a riguardare l’immagine di Hollein viene da chiedersi se la tecnologia non stia smaterializzando l’architettura al punto da sollevarci dalle nostre responsabilità. Credo che questo non sia avvenuto e che non avverrà mai. E che ci sia ancora molto da indagare nel campo dello spazio architettonico e, quindi, degli spazi di lavoro».
(FN)