Un locale che supera i confini del quartiere Trieste di Roma, per affermare la sua architettura e diventare un movimento.
Cinquemila le persone presenti il 17 febbraio 1965 al concerto di inaugurazione di The Rokes e l’Equipe 84, al Piper Club di Roma. Lì hanno trovato consacrazione, oltre a Patty Pravo, la mitica ragazza del Piper, Romina Power, Renato Zero, Mia Martini e Loredana Bertè. Sul suo palco si sono esibiti i Pink Floyd, i New Trolls, Le Orme, i Pooh e sulla sua pista da ballo sono stati ospiti i Beatles.
Che sia uno dei locali più memorabili di sempre è cosa nota, ma in pochi ne conoscono la vera storia.
Nato da una chiacchierata tra amici nel giardino centrale di Piazza Trasimeno a Roma, quando
l’avvocato Alberico Crocetta propose ai fratelli Capolei, entrambi architetti, di progettare un luogo per ballare che fosse assimilabile ad un flipper, in cui le persone si potessero spostare liberamente come palline.
Un ex cinema mai aperto al pubblico in Via Tagliamento, posto ad una quindicina di metri sotto il livello stradale, diviene simbolo di una generazione che voleva scardinare rigide regole di comportamento, per immergersi in una fluidità di incontri e attività che richiedevano un luogo agile e mutevole. Molti giovani scappavano di casa pur di partecipare ad una festa nella discoteca più all’avanguardia di Roma.
Così il palco in cui si esibisce l’artista conquista nel Piper una posizione centrale, sradicando il gioco dei ruoli frontali tra attore e spettatore.
Protagonista diventa l’arte che si staglia sul fondale murario “Il giardino di Ursula”, disegnato da Claudio Cintoli ed ispirato a Ursula Andress, in cui giochi di luce e materia tridimensionale sono studiati per stimolare i giovani ad unirsi in un alternarsi di performance.
Arte, spettacolo e persone si fondono dunque con la superficie lasciando spazio alla libera interpretazione del movimento, in una superficie multicentrica.
Come raccontato da Anna Riciputo, seguendo il significato letterario della parola “Piper”, come un “pifferaio” quel locale ha spazzato via con un tocco di magia tutte le balere finallora esistenti in cui maschi e femmine si sedevano lontani gli uni dalle altre per incontrarsi al centro della pista da ballo su invito, per lasciare spazio ad un nuovo filone di progettazione tanto che, durante l’anno accademico 1966-67, viene tenuto un corso di progettazione a Firenze proprio sui luoghi per lo spettacolo.
Si aprono così le porte all’architettura radicale, che dà origine al Piper Pluriclub a Torino, al Bella Blu nel 1977 a Roma, al Number One, fino ad arrivare al Gilda e poi all’Alien negli anni ’90 (primo locale con un’area VIP riservata) in cui il sodalizio illuminato tra Gepy Mariani, scenografo di Rossellini, Giusto Puri Purini e Giancarlo Bornigia ha fortemente marcato la movida romana, segnando così la vita di generazioni di giovani.
L’effetto Piper arriva fino a Piazza Euclide che diventa punto di ritrovo di giovani, tanto da scavalcare le generazioni e ricoprire oggi lo stesso ruolo di allora. È lì che apre il Piper Market, un negozio di abbigliamento self-service trasformando la piazza in una destinazione cult, in un quartiere fino ad allora molto borghese e riservato. Una nuova dolce vita che, come Via Veneto prima, va oltre la realtà romana e assume valore iconico.
Si pensò anche ai bambini con il Piperino, un negozio con un enorme scivolo che portava ad un seminterrato, vero paradiso per i più piccoli.
L’impatto del Piper, imperante in tutta la Capitale e non solo, è l’esempio di come sia possibile ricoprire un ruolo sociale determinante attraverso la propria professione, anche lavorando a quella che sembra una piccola architettura.
Storico il premio IN.ARCH DOMOSIC conferito a Giancarlo e Francesco Capolei nel 1965 per la progettazione e realizzazione della discoclub Piper, che ha modificato il modo di vivere e di socializzare dei giovani. “Nessuno avrebbe creduto al risultato – confessa Giancarlo Capolai – abbiamo vinto quel premio con il Ponte in Calabria di Musumeci, il Palazzo della Rinascente di Albini e Helg, un ospedale di Sacripanti. Lo abbiamo sottovalutato, ma la storia gli ha reso merito. Ci andavamo in tarda nottata solo per vedere se funzionava: se avessimo vinto la scommessa, ci avrebbero pagato”.
Oggi l’OAR celebra i novant’anni di Giancarlo Capolei, classe 1933, con una lectio magistralis che mostra non solo la sua capacità di cogliere l’essenza del tempo in cui le sue architetture si inseriscono, ma anche la sua sagacità che lo rende professionista contemporaneo.
Una laurea in architettura nel 1960 e Giancarlo Capolei fonda lo Studio professionale 3C+t a Roma con il fratello maggiore Francesco Capolei e Manlio Cavalli. Profondo il rapporto con il fratello, a cui era molto legato e da cui ha imparato molto, come lui stesso ha ammesso. In quell’intrecciarsi di affetti e professione che forse solo l’architettura sa dare.
Eclettico, curioso e brillante, intraprende la carriera universitaria presso l’Istituto di Urbanistica della Facoltà di Architettura dell’Università La Sapienza di Roma, affiancando Professori illustri come Plinio Marconi, Luigi Piccinato e Gabriele Scimemi fino al 2000.
Alle spalle un mandato da Presidente presso Ordine degli Architetti di Roma e Provincia dal 1992 al 1994, che lo vide impegnato come membro della Commissione Senato e Camera riunite per la stesura del Nuovo Codice degli Appalti 1994. Arguto nel precorrere i tempi, fonda il CesArch, ente di formazione professionale quando l’obbligo di aggiornamento era ancora molto lontano.
Dalla progettazione del profano Piper, Capolei passa al sacro. Viene infatti chiamato a fine anni ‘60 a San Giovanni Rotondo, perché Padre Pio ha intenzione di costruire una casa per bambini non vedenti. Verrà poi realizzata in cemento a facciavista, secondo i dettami dell’architettura brutalista di quegli anni. “Conobbi Padre Pio nel 1967, quando era molto malato e infastidito dai dolori – racconta Giancarlo Capolei – ma era fortemente voglioso di aiutare i bambini con un posto a loro adatto. Nonostante la sofferenza, quello che mi è rimasto nel cuore è la serenità con cui veniva affrontato il dolore da parte delle famiglie”.
Intense le collaborazioni con artisti, pittori e scultori (come Claudio Cintoli e Francesco Di Cocco), occasioni di approfondire i problemi connessi con l’uso degli spazi esterni ed interni degli edifici e della pianificazione urbanistica.
L’attività professionale si è concentrata nei settori della pianificazione territoriale ed urbanistica, dell’architettura e dell’ingegneria civile, con la partecipazione a numerosi concorsi nazionali ed internazionali.
Sessantatré anni di professione che continuano ancora oggi perché “architetti si nasce e non si va mai in pensione – come ha commentato Alessandro Panci | Presidente dell’Ordine degli Architetti PPC di Roma – spesso tramandando il sapere tra generazioni, come nel caso di Capolei a cui succedono professionalmente i figli. Oggi celebriamo un grande senso di appartenenza”.
“Ho vissuto uno splendido periodo storico perchè ho visto ricostruire l’Italia, anche se oggi gli architetti non sono considerati – spiega Giancarlo Capolei – Mario Botta diceva che l’architetto è importante perchè progetta strutture sociali, ma per farlo ha bisogno di due elementi: essere ben pagato e avere committenti illuminati. Io sono stato fortunato su entrambi gli aspetti. Oggi, senza tariffe professionali non si dà il giusto valore alla professione. La libertà non funziona in Italia, perché l’architetto non è rispettato e questo mi delude molto. I giovani sono disamorati perché scarsamente remunerati. Vanno all’estero dove sono molto apprezzati”.
“Dopo l’evento dedicato a Busiri Vici, celebriamo i novant’anni di Giancarlo Capolei per ribadire il forte legame tra Novecento e Contemporaneità, attraverso la sostanza materica che è l’architettura – conclude Marco Maria Sambo – un patrimonio prezioso e di sogni realizzati che consente di ricostruire la storia della nostra città attraverso i legami umani e professionali da cui dobbiamo cogliere l’approccio positivo alla vita ed all’architettura. Un rapporto tra padri e figli dell’architettura per raccogliere l’eredità: questo il filo che lega il XX secolo all’oggi”.
Le fotografie sono tratte dall’Archivio storico di Giancarlo Capolei.