ARCHIVIO STORICO DELL'ORDINE

Presentazione

L’Ordine degli Architetti PPC di Roma e provincia ha svolto un importante lavoro di archiviazione degli elaborati grafici degli architetti romani: una ricerca lunga e complessa, che coinvolge studi di progettazione, istituti di cultura, accademie, Università ecc., e che, nel tempo, confluirà in una grande raccolta di uno straordinario, quanto poco noto, patrimonio culturale, specificamente legato alla nostra professione e alla nostra città.

 

Un tale, eccezionale lavoro, pur evidentemente di grande interesse, richiede qualche considerazione più specifica. In primo luogo, ricordiamo che la parte autografica del lavoro di un architetto è, evidentemente, limitata a quella progettuale e si esplica, per lo più, attraverso disegni. Diversamente da quanto avviene per le altre arti, come la pittura e in gran parte la scultura, l’architettura non è prodotta direttamente da chi l’ha progettata: questione estremamente delicata, che rende di conseguenza fondamentali le operazioni di conservazione, censimento, catalogazione, digitalizzazione e comunicazione di tali disegni. Presupposto essenziale, nel loro insieme, per altre operazioni, ancora molto diverse: si tratta, naturalmente, di un dovere che abbiamo nei confronti delle generazioni di progettisti che ci hanno preceduto, ma anche di quelle che seguiranno.

 

Accanto al patrimonio in gran parte costituito da elaborati grafici giunti all’Ordine grazie a cessioni o depositi da parte di professionisti o dei loro eredi, vi è una sezione dell’Archivio composta da documenti che l’istituzione stessa ha prodotto fin dall’insediamento della prima Giunta nella seduta del 16 ottobre 1930, e ancor prima per effetto della legge 24 giugno 1923, n. 1395 sulla “Tutela del titolo e dell’esercizio professionale degli ingegneri e degli architetti” e del relativo regolamento di attuazione. Si tratta, nello specifico, dei verbali delle sedute dell’Organo direttivo e delle Assemblee degli iscritti e dei fascicoli che contengono i documenti che le norme prevedevano per l’iscrizione all’Ordine professionale. Documenti amministrativi dunque, ma anche e soprattutto resoconti di un arco temporale che, per la parte che interessa questo volume, è stato segnato da vicende storiche di particolare rilevanza per il nostro Paese e, in tale contesto, per la nostra professione.

 

Nei verbali, oltre alle deliberazioni direttamente collegate con la tenuta dell’Albo, non mancano cenni, più o meno diretti, a quanto stava storicamente segnando gli anni a cavallo del secondo conflitto mondiale, con tutta la complessità la drammaticità e le difficoltà di tale periodo. Ai primi anni di esordio della nuova struttura professionale, con tutte le problematiche connesse alla definizione delle competenze e del campo d’azione, seguono anni di delicato rapporto con il potere statale, in cui fu inevitabile “scegliere la parte” dalla quale stare, con conseguenti decisioni che oggi non si possono non giudicare inaccettabili – e ci si riferisce in particolare alla scelta, comunque obbligata, di applicazione della legge n. 1054 del 1939. Vengono poi gli anni della ricostruzione, con le aspettative e le speranze che la categoria professionale ha nutrito davanti allo scenario di un Paese che degli architetti aveva bisogno come non mai.

 

Dalla lettura dei verbali emergono i nomi dei protagonisti della scena romana di quegli anni, in quanto appartenenti all’Organo direttivo o, comunque, attivamente presenti nelle Assemblee e nelle emanazioni dell’Ordine stesso (le varie Commissioni); se ne ricavano aspetti nuovi e, a volte inaspettati, di figure che hanno segnato la storia dell’architettura italiana sullo sfondo di un periodo storico che andrebbe, per molti versi, approfondito.

 

Più in dettaglio, tornando alla ricerca, catalogazione e archiviazione dei disegni d’architettura, rileviamo che questa è fondamentale per una lunga serie di ragioni, relative a considerazioni che riguardano almeno tre grandi ambiti: lo stesso disegno, il restauro e la storia. Sul primo campo va detto che il disegno degli architetti è parte integrante e imprescindibile dell’identità italiana, dal punto di vista artistico in generale e architettonico in particolare. Gli architetti italiani hanno sempre disegnato molto e bene e il patrimonio grafico da essi elaborato ha sempre costituito una solida base di partenza per ogni successiva ricerca architettonica. Hanno peraltro anche spesso utilmente e diffusamente teorizzato sul tema. Il disegno è stato dunque, da sempre, linguaggio privilegiato per la comunicazione dell’architettura, sia di quella realizzata, che procede cioè dall’architettura, com’è nel caso del rilievo, sia di quella da realizzare, che precede quindi l’architettura, com’è nel caso del progetto. Ma il disegno ha avuto anche una forte tensione verso l’ideazione, la sperimentalità e l’utopia, e gli elaborati prodotti, anche nei casi in cui non è effettivamente derivata la costruzione di un edificio, hanno spesso fortemente influenzato la produzione successiva e, nei casi migliori, sono a buon diritto entrati a far parte della storia dell’architettura.

 

De Fusco, dal suo punto di vista eminentemente semiotico, ha utilmente definito il disegno d’architettura, nei suoi tre momenti del rilievo, della progettazione preliminare e di quella esecutiva, come “… un’attività che rimanda ad altro, designa altre cose ed è in funzione dei vari interpreti: il committente, i tecnici, le maestranze. Cosicché il disegno architettonico va considerato come un linguaggio, una comunicazione attraverso segni che determinano un comportamento …1 . E ciò gli ha consentito, vista la natura linguistica della stessa architettura e la nozione di metalinguaggio introdotta da Morris – “… un linguaggio che significa nei confronti di altri linguaggi …2 – di considerare il disegno d’architettura “… come un metalinguaggio rispetto al linguaggio dell’architettura. Non solo, ma di sottolineare la funzione strumentale, pragmatica ed eteronoma di tale metalinguaggio …3 . Funzione che tuttavia non ha nulla di secondario né di subalterno, ma che coglie anzi l’essenza strutturale del disegno, in tutta la sua complessità e in tutta la sua forza ideativa, prescrittiva, interpretativa, comunicativa. Nell’ambito del restauro, il secondo fra i tre sopra identificati, le considerazioni cui si è accennato in apertura sono alla base di alcune posizioni recenti particolarmente interessanti. Diversamente dalla pittura, dalla scultura e da altre arti, l’architettura non è, come s’è anticipato, un’arte autografa; e l’autenticità storica della materia di cui essa è fatta non è altrettanto importante, dal momento che progetto e realizzazione sono opera di professionisti, tecnici ed esecutori diversi.

 

La questione è stata analizzata nel dettaglio da molti. Fra tutti, si ricorda sull’argomento ciò che ne ha scritto di recente Franco Purini: “… L’edificio non è fatto dalle mani dell’architetto, come accade invece nella pittura e, in modo diverso, nella scultura. Esso è il frutto del lavoro di numerosi operatori, depositari di una pluralità di competenze tecniche, i quali svolgono un lavoro collettivo all’interno di un piano complessivo – il progetto – messo a punto dall’architetto. È dunque il progetto il vero luogo dell’autografia, o meglio, ciò che maggiormente si avvicina a essa. …4. Un tema delicato, sul quale si discute oggi molto in Europa e in particolare in Italia; un tema, inoltre, chiaramente utilizzato da Paolo Marconi nelle sue ultime, interessanti teorizzazioni “contro” Brandi e l’ortodossia della Carta di Venezia. In esse, ogni eventuale operazione di ricostruzione dell’architettura “dov’era, com’era”, non può che poggiare saldamente sui rilievi e, soprattutto, sugli elaborati progettuali: operazione evidentemente possibile nella misura in cui essi siano stati opportunamente conservati e archiviati. Prevedibilmente caratterizzate da grande chiarezza espressiva sono infine, a proposito del terzo e ultimo ambito identificato, quello storico, le posizioni espresse da Bruno Zevi, che ha così spiegato l’indipendenza qualitativa del disegno dall’opera architettonica: “… Il pregio degli schizzi architettonici è indipendente dall’edificio che eventualmente potrà derivarne dando luogo ad un’altra opera, affatto distinta … anche un progetto apparentemente anodino può derivare un’opera splendida, e viceversa …5. Per poi concludere: “… i disegni degli architetti interessano dunque la storiografia in tre sensi: a) se gli edifici sono realizzati, ne documentano una tappa della vicenda creativa; b) se sono artisticamente raggiunti, appartengono alla storia dell’arte, non a quella specifica dell’architettura, in quanto sono immagini compiute, non prefigurazioni o ‘sostituti’; c) se sono di grandi maestri, che hanno dimostrato in altre opere di saper passare dallo spunto alla realtà edilizia con piena coerenza, indicano un dato della loro vita, una ‘intenzione’, un’occasione perduta…6. Il disegno svolge dunque un ruolo essenziale nei confronti della storiografia architettonica: per una storiografia (come “storia-studio”) che provi a rifondarsi scientificamente dal suo interno: soltanto così riusciremo, forse, a comprendere, nei limiti in cui ciò sia effettivamente possibile, la complessità della storia (come “storia-realtà”)7.

 

L’attenzione riservata dunque al disegno da parte dei progettisti – analogamente a quanto d’altra parte accade in ogni ambito contemporaneo nei confronti di tutto ciò che rientra nella sfera della rappresentazione – legittima ulteriormente l’interesse di critici e storici dell’architettura per ciò che si va sempre più configurando come un sofisticato linguaggio, ricco di connotazioni e di valenze che vanno al di là della pura e semplice comunicazione di un messaggio architettonico a fini costruttivi e che, in una parola, assume un ruolo culturale nel senso più ampio e inclusivo del termine.

 

Di qui l’interesse ad approfondire la storia del disegno e la storia dell’idea di disegno: ricerche possibili solo attraverso la consultazione di archivi costruiti e puntualmente organizzati ad hoc. I risultati di tali ricerche sono tutt’altro che scontati. Il disegno ha attraversato di recente momenti di alterna fortuna critica – ci riferiamo segnatamente alla vicenda dell’ultimo mezzo secolo, cioè grosso modo dalla ripresa postbellica a oggi – al punto da rendere necessaria la più attenta riconsiderazione di un tema che sembra percorrere diagonalmente tutta la vicenda contemporanea e per il quale l’avvento e la diffusione del digitale non ha che portato a un ulteriore accrescimento dei suoi diversi livelli interni di complessità, sia dal punto di vista effettivo sia da quello interpretativo. L’avvento del digitale, rivoluzionando la pratica professionale, ha anche inciso fortemente sulla tradizionale elaborazione grafica: il disegno manuale è oggi passione di pochi, quello dal vero è considerato occupazione d’altri tempi e i fondamenti geometrici del disegno sono sempre meno noti, insegnati e praticati. La stagione dell’architettura disegnata che, producendo forme fortemente innovative, portò per circa un ventennio la creatività architettonica italiana, e romana in particolare, alla ribalta internazionale, e che, parallelamente alla fuoriuscita dalla modernità storica, consentì all’architettura italiana di esperire “… la fuoriuscita del disegno dai suoi ambiti strettamente strumentali e la sua riproposizione come luogo strategico della ricerca disciplinare …8 è insomma lontana. Ma è anche vero che l’Italia sta tuttavia attraversando, a dispetto di ogni difficoltà, di ogni crisi, una fase di gran- de rinnovamento: il gap fra il nostro Paese e quelli più avanzati in Europa, si è per molti aspetti ridotto; la circolazione europea degli studenti è, nonostante tutto una realtà acquisita e sta provocando, a catena, un’analoga circolazione dei nostri professionisti all’estero. In un simile, rinnovato quadro, il disegno, nella sua nuova maturità digitale, deve tornare a svolgere quel ruolo di garante della tensione verso la sperimentalità (creativa, propositiva, utopica se si vuole) che, anche e soprattutto in assenza di una realizzazione (evento sempre difficile per tutta una serie di ragioni chiaramente evidenti, soprattutto nel nostro Paese), resta il principale obiettivo del lavoro dell’architetto.

 

Con la pubblicazione di questo prezioso materiale, unitamente all’accurato lavoro eseguito sul lascito dei professionisti romani – che va poi, ovviamente, inquadrato all’interno del più ampio Piano nazionale per la tutela del patrimonio documentario dell’architettura del Novecento – si è dato un nostro contributo locale a un disegno più generale che coinvolga, per intera, l’architettura italiana.

 

 

Livio Sacchi

Note

1 DE FUSCO R., Il disegno di architettura, in «Op. cit.», n. 6, maggio 1966

2 cfr. MORRIS Ch., Segni, linguaggio e comportamento, Longanesi, Milano 1963, p. 175

3 DE FUSCO R., ibidem

4 PURINI F., Comporre l’architettura, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 138

5 ZEVI B., Architectura in nuce, Sansoni, Firenze 1972, pp. 131-132

6 ZEVI B., op. cit., p. 134

7 cfr. DE FUSCO R., Restauro. Verum factum dell’architettura italiana, Carocci, Roma 2012, p. 14

8 PURINI F., Proclamandone l’isolamento, in «XY Dimensioni del disegno», n. 10, dicembre 1989

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