ARCHIVIO STORICO DELL'ORDINE
Contributi alla definizione del contesto storico e culturale
Dai documenti d’archivio: il contributo degli architetti romani al divenire di Roma ed alla docenza universitaria
Questo materiale, oggetto di una pubblicazione, è il primo ed importantissimo risultato (altri seguiranno) di un lungo lavoro di analisi e sistematizzazione dell’Archivio storico dell’Ordine professionale degli architetti romani: che oggi si chiama “Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Roma e provincia”, ma che in anni precedenti ha avuto anche altre denominazioni, quindi anche altre e diversificate aree giurisdizionali. L’intento di dar vita a questa importante iniziativa si deve a Maria Letizia Mancuso che sei anni fa l’ha proposta all’attenzione ed all’interessamento di Amedeo Schiattarella, allora Presidente dell’Ordine. È dunque suo merito l’avere subito compreso l’importanza culturale di questa proposta e di averla tradotta in un organico e sistematico programma di ricerca. Noto con soddisfazione che questa iniziativa, ampliando gli orizzonti dell’Ordine professionale che ora coordina e presiede all’attività di architetti di più e diversificate specializzazioni, si allinea a quella di altre importanti analoghe istituzioni. Penso, per esempio, al prestigiosissimo londinese RIBA (Royal Institute of British Architects) che, grazie al suo archivio ed alla sua prestigiosa biblioteca, fornisce un essenziale contributo alla ricerca storica sull’architettura (e sue molteplici articolazioni).
Entro ora nel merito dei risultati della ricerca e sistemazione dell’archivio oggetto di questo volume. Interessa preliminarmente sottolineare due importantissime circostanze. Che a partire dal 1925 il fascismo aveva instaurato un sistema di fatto dittatoriale con l’abolizione dell’esistente Parlamento e la sua sostituzione con la “Camera dei fasci e delle corporazioni”. E che tale atto politico ha avviato un nuovo e del tutto differente quadro: non solo istituzionale e politico, ma anche culturale ed artistico. Dalla documentazione di archivio emerge così subito un dato cronologico interessante: il primo documentato caso di iscrizione di un professionista all’Ordine degli architetti romani è del 1926. È, questa, una data che si inserisce in un periodo per più ragioni molto importante per il contesto dell’architettura italiana in generale sia, in particolare, per i correlati professionistico-disciplinari sottesi all’attività dell’Ordine professionale romano che origi- nano da vicende precedenti. Nel 1916 Giovannoni aveva riaperto, a Roma, il dibattito sulle Scuole di Architettura che già a fine Ottocento era stato avviato in ambito milanese. Ne è una conseguenza, anche promossa a partire dall’azione di Manfredo Manfredi (noto architetto romano: si devono a lui il monumento sepolcrale di Vittorio Emanuele II nel Pantheon, ed il palazzo del Viminale), la legge Baccelli del 1920 che ha istituito a Roma la prima ufficiale Scuola Superiore di Architettura (di qui anche un’accusa: secondo Nicoloso, Roma aveva compiuto un vero e proprio “scippo”!) nello Statuto della quale, come dirò più avanti, era fortemente accentuata la componente tradizionale implicita nel pensiero giovannoniano: il primario riferimento alla triade vitruviana “utilitas, firmitas, venustas” ed inoltre (anche se erano ovviamente prese in conto altre realtà storiche) la privilegiata attenzione all’architettura italiana, e soprattutto romana, di matrice cinque-seicentesca (però era meglio sorvolare su Borromini e su quanti ne hanno seguito le orme). Ciò perché era convinzione giovannoniana che lo studio dell’architettura, pur se finalizzato a dare risposte alle esigenze ed ai criteri della contemporaneità (di qui, secondo il suo parere, la necessità di svolgere un periodo di tirocinio), non poteva prescindere da una diretta conoscenza dei monumenti locali: anche, e non secondariamente, mediante il rilievo. E perché, più in generale, il quadro didattico della Scuola di Architettura era mirato a formare un “architetto integrale” (dotato cioè di competenze pluridisciplinari: oltreché tecniche, anche artistiche, storiche, e così via), che echeggiava appunto la figura di architetto delineata da Vitruvio.
Conviene però allargare l’orizzonte: guardando cioè al contesto nazionale in rapporto a quello europeo. Nel 1919 (cioè un anno prima dell’istituzione della Scuola di Architettura romana), in sostituzione della preesistente Kunstgewerbe- schule (scuola per l’artigianato e le industrie artistiche), si apre in Germania, a Weimar (allora centro di una Repubblica socialdemocratica), per impulso di Walter Gropius, la scuola denominata “Bauhaus”. La quale, forse come eco delle avanguardie artistiche dei primi decenni del XX secolo, era incentrata sulla necessità di ripartire da una sorta di “grado zero” delle conoscenze (ivi clamorosamente comprese quelle storiche) e impostava la sua didattica proponendo, a tal fine, innovativi ed inconsueti percorsi di ricerca. Il cui esito formativo era sia l’architettura intesa però nel contesto delle plurime articolazioni del Movimento Moderno, sia la produzione di oggetti d’uso che utilizzavano nuovi materiali e pro- cessi produttivi: nel Bauhaus nasce cioè il vero e proprio Industrial Design.
Nel 1926 (come detto è lo stesso anno del primo documentato caso di iscrizione di un architetto all’Ordine professionale romano) si costituisce il “Gruppo7”: alcuni giovani architetti (tra i quali il non ancora laureato Adalberto Libera) entrati in diretto contatto con le realizzazioni degli architetti stranieri del “Movimento Moderno” per l’architettura allora raggruppati nella struttura associativa del Werkbund. Di loro, e proprio nel 1926, dà conto la rivista La Rassegna Italiana giudicando che essi operavano un’accorta mediazione tra classicismo e funzionalismo.
Dunque, a Milano ma anche a Roma, nei confronti dell’architettura italiana del tempo, si era ormai aperto un aspro scontro tra le opposte posizioni dei “tradizionalisti” e dei “moderni”. Ne è un’avvisaglia la Prima Esposizione di Architettura Razionale (organizzata da Libera e Minnucci) inaugurata a Roma nel 1928 (i giovani Libera, Ridolfi, Vietti, espongono i loro progetti). Ma ne è provocatoriamente emblematica la Seconda Esposizione di Architettura Razionale inaugurata a Roma da Mussolini nel 1931. Qui viene infatti esposto il famoso “tavolo degli orrori” che, ponendo alla berlina le opere di Brasini, Bazzani, Giovannoni e, con qualche distinguo, di Piacentini, rendeva plasticamente evidenti i due contrapposti schieramenti allora presenti in Italia: da un lato quello degli architetti più giovani aderenti al Razionalismo (i milanesi del Gruppo7, il gruppo fiorentino guidato da Michelucci, alcuni romani di cui dirò più avanti), dall’altro lato quello di altri architetti, in genere già professionalmente affermati, che non aderivano all’impianto concettuale (ed ai conseguenti esiti tipologici e morfologici) del Razionalismo e che invece inseguivano altre linee progettuali. È utile dare brevemente conto di questo secondo gruppo le cui opere, in genere, sono state poste in ombra dalla storiografia degli anni Quaranta- Settanta dello scorso secolo; ma che, in questi ultimi decenni, sono state invece riesaminate ed in certi casi opportunamente rivalutate. Tra gli architetti romani, oltre a quelli messi all’indice nel “tavolo degli orrori”, rientrano in questo gruppo numerosi altri architetti di cui, però, qui ora non parlo perché ad essi farò più preciso riferimento in seguito. Tra i milanesi rientrano in questo gruppo, e di loro faccio invece il nome, principalmente i componenti del movimento “Novecento” sponsorizzato da Margherita Sarfatti (Muzio, Portaluppi, Lancia, Ponti) ed inoltre Gardella ed Albini (laureato nel 1929, ha iniziato la sua attività nello studio Lancia-Ponti). Comunque, detto sinteticamente e tenuto conto che già nel primo decennio del XX secolo il Futurismo aveva gridato “contro il passatismo”, ciò che si considerava “innovazione” si contrapponeva a ciò che veniva considerato “retriva tradizione”: ivi compresi i movimenti Art Nouveau, Jugendstil, Liberty (nella storiografia inglese e poi in quella italiana ad essi riferita, considerati invece prodromici all’architettura del Movimento Moderno) e quanto di loro era stato accolto in Italia: non senza eclettismi ed ibridazioni di varia origine. Interessa sottolineare che nella Roma del fascismo lo scontro tra queste due linee della cultura architettonica (per lo meno tra la fine degli anni Venti ed i primi anni Trenta) ha anche assunto più generali e duraturi connotati politici; i cui esiti appaiono in genere di indirizzo contrapposto e cioè contradditorio (parallelamente, per la pittura, ai contrapposti intenti del Premio Cremona e del Premio Bergamo). Perché se da un lato la propugnata necessità di innovare l’architettura veniva considerata in sintonia con il quadro culturale di quella che allora veniva detta “Rivoluzione Fascista” (con riferimento agli anni Venti-Trenta Terragni parlerà di “fase squadrista”), dall’altro lato, invece, la ormai raggiunta stabilità del fascismo, da tempo divenuto “Partito Nazionale Fascista” e dunque espressione di un “regime”, imponeva agli organi di governo (cioè alla dirigenza fascista) ed alle loro diramazioni, istituzionali e no, la ricerca del consenso generalizza- to. Soprattutto quello dei ceti borghesi urbani spesso in sintonia di interessi con esponenti dei ceti aristocratici. Essendo proiettati, ceti borghesi ed aristocratico-nobiliari, e tanto più a Roma (non è di secondaria importanza ricordare che tra il 1928 ed il 1943 ben tre principi – Boncompagni, Colonna e Borghese – sono stati governatori di Roma), a guardare all’architettura ed all’urbanistica, come strumento particolarmente idoneo a favorirne gli interessi.
Di questa complessa situazione sono espressione e strumento talune importanti riviste di architettura di quel tempo. A Milano Marangoni fonda nel 1928 la rivista La Casa bella (poi diverrà Casabella) che nel 1933 sarà diretta da Pagano (già collaboratore di Edoardo Persico), e che, da quel momento, diverrà l’organo di pubblicizzazione dei temi e delle realizzazioni dell’innovazione. Sempre a Milano, e sempre nel 1928, Gio Ponti fonda la rivista Domus (allora sottotitolata “Architettura e arredamento dell’abitazione moderna in città e campagna”). Entrambe le riviste essendo proiettate a diffondere sia la “nuova architettura”, sia il “nuovo arredamento”. Del tutto diversa è la posizione della rivista Architettura e Arti Decorative. Pubblicata a Roma e Milano e fondata nel 1921 da Giovannoni e Piacentini, nel 1927 passa sotto la direzione di Giorgio Calza Bini (già fondatore di un “fascio di combattimento” e presidente del Sindacato Fascista degli Architetti) e diviene dunque ufficialmente “Organo del Sindacato Nazionale degli Architetti” (la dicitura del titolo di testata era icasti- camente ed orgogliosamente preceduta e conclusa da due “fasci littori”): cioè strumento di comunicazione delle linee professionistiche avallate dal fascismo. Ne è un’evoluzione la rivista Architettura fondata da Marcello Piacentini nel 1931 (durerà sino agli anni della seconda guerra mondiale: Gaetano Minnucci ne è stato redattore fino al 1935). Rivista che, pur essendo anch’essa “Organo del Sindacato Nazionale Fascista Architetti”, si poneva tuttavia come strumento di mediazione tra le linee dell’architettura “moderna” e “non moderna”. È poi anche utile segnalare che Giovannoni ha fondato, nel 1937, la tuttora vivente rivista Palladio: prevalentemente finalizzata a diffondere i risultati di studi e ricerche di storia dell’architettura intesa nei suoi lineamenti tradizionalmente disciplinari.
Riprendo però il filo del mio discorso con alcune considerazioni di ordine generale; proiettando cioè la situazione degli architetti italiani “moderni” sullo scenario dei protagonisti europei dell’architettura “moderna”. Malgrado che le posizioni di Gropius, di Le Corbusier, di Mies Van der Rohe, di Mendelsohn, di Taut, e così via, cioè di architetti di differente nazionalità e formazione, differiscano più o meno fortemente l’una dall’altra, tuttavia esse fanno parte di un medesimo contesto concettuale a carattere “non nazionale” o, per meglio dire, transnazionale. Diverso è invece il contesto italiano. Perché le posizioni degli architetti italiani “moderni” (Terragni, Pagano, Moretti, Gruppo7, il gruppo denominato BBPR, Michelucci, per citarne alcuni), pur ovviamente riferibili al quadro internazionale razionalista e funzionalista, e dunque non certo legati a ciò che allora si intendeva per “tradizione”, appaiono comunque sottilmente differenti da quelle degli architetti “moderni” non italiani. In quanto, sostiene la storiografia più recente, e ne condivido il giudizio, le loro opere appaiono permeate da una componente formalistica di matrice non transnazionale ma, invece, peculiarmente “italiana”: fatta forse eccezione per Michelucci (ed il gruppo fiorentino che si forma attorno a lui muovendo dagli sviluppi operativi di un progetto di laurea di Gamberini) che, almeno nella vicenda della stazione di Firenze (metà degli anni Trenta quando Nervi aveva già realizzato lo stadio fiorentino con innovative soluzioni in cemento armato), mi sembra principalmente riferirsi, non solo, come si dice, alla componente funzionalista, ma anche ad una combinazione di temi espressionistici tedeschi e di istanze tardo futuriste. Ed interessa dunque constatare che già nel 1926, quando cioè si era formato il Gruppo7, la rivista La Rassegna Italiana (favorevole al “moderno”) aveva sottolineato come in molte delle opere degli architetti “razionalisti” italiani, fosse rilevabile una componente di “classicità” che sarebbe appunto la radice sotterranea della loro peculiare (cioè non transnazionale) aggettivazione “italiana”: giudizio più tardi condiviso da Persico. E che inoltre tale componente “italiana” è ancora più evidente nel caso degli architetti “moderni” romani. Non sorprende dunque constatare che molti autorevoli esponenti della recente storiografia romana (tra questi Paolo Portoghesi) siano recentemente tornati, ed in particolare nel caso delle opere di Luigi Moretti (esponente di spicco dell’ambiente romano di quegli anni), sul tema della peculiare versione italiana del Razionalismo degli architetti “moderni” degli anni Trenta.
Resta però vero, ed indubitabile, che il fare degli architetti italiani “moderni” era del tutto alternativo al fare degli architetti ancorati alla “tradizione” (concetto che, peraltro, non sottintendeva affatto l’unicità ed omogeneità delle scelte progettuali, ma, invece, un insieme di correnti alquanto diversificate). Corrente principale, tra quelle romane, è il cosiddetto “barocchetto” (promosso da Giovenale) cui aderiscono, tra gli altri, Brasini, Giovannoni e De Renzi. Ma a Roma il riferimento alla “tradizione” si traduce anche in altre correnti di differente matrice: in particolare quella di un’eclettismo “postliberty” (anche mescolato con stilemi neogotici o di altro riferimento stilistico) cui si devono i numerosi villini di elitaria committenza privata. Incuriosisce dunque notare che nella testata della piacentiniana rivista Architettura, pur sempre “Organo del Sindacato Nazionale Fascista Architetti” e pertanto strumento di comunicazione delle linee politiche ufficiali, non compaiono i due già ricordati orgogliosi “fasci littori”: sarà un caso, oppure è un criptico segno di attenzione ed apertura alle opere di quanti non erano del tutto in sintonia con le posizioni ufficiali dei nuovi quadri dirigenti del fascismo? Conviene però tornare sul tema della disomogeneità del fronte tradizionale. Perché è appunto da lì che emerge la complessità dell’opera di mediazione (e conseguenti compromessi) tra tutte queste correnti (ivi comprese quelle che una recente storiografia ha rivalutato definendole “altra modernità”) e gli intenti della committenza pubblica di cui si faceva carico Piacentini. Ma non si può non tener conto che degli interessi della committenza pubblica di scala localistica (in particolare quella delle istituzioni locali del regime fascista) facevano anche parte, nel più ampio disegno della ricerca del consenso politico, altri e differenti temi. Uno dei quali era la valorizzazione, anche mediante estesi e spregiudicati interventi, o di scavo archeologico o di “restauro di ripristino” (volta a volta, in questo caso, in chiave o medievale, o rinascimentale, o cinque-seicentesca, e così via): perché finalizzati, nella ricerca di allargare il consenso al governo, a favorire le pulsioni identitarie dei ceti e gruppi dirigenti delle singole città. Intervenendo dunque non solo, e soprattutto non più, su singoli edifici, ma anche su intere e significative parti del tessuto urbano cittadino (emblematico, in tema di medievalismo, il caso della piazza Maggiore di Arezzo). Dunque, salvo lodevoli eccezioni, assoggettando le parti esterne degli edifici ad una cosmesi morfologica “superficiale” (in senso sia di “superficie”, sia di “superficialità metodologica”) e non esitando a ricorrere, se del caso, al metodo del cosiddetto “risanamento” allora considerato mediaticamente in linea con le immagini (cinegiornali, fotografie ed altro) degli emblematici episodi dalla retorica del “piccone demolitore” mussoliniano. In realtà tutto ciò altro non era se non il prolungamento delle scelte europee degli ultimi decenni del XIX secolo (ma con esiti che a Roma appaiono del tutto peculiari).
Ad ogni modo, contestato “dominus”, ma al tempo stesso rispettato mediatore tra le posizioni degli afferenti alla architettura e all’urbanistica “moderne” e quelle delle altre linee, è sempre, direttamente od indirettamente, Marcello Piacentini. Ciò anche perché, viene da riflettere, la sua indiscussa capacità di mediatore era favorita dalle molte e speciali condizioni di cui egli poteva giovarsi. Era figlio di Pio Piacentini (architetto romano ben noto perché a Roma aveva già realizzato il tuttora esistente Palazzo delle Esposizioni) e dunque già in partenza faceva parte del contesto professionistico cui a Roma si riferivano i committenti pubblici e privati. Apparteneva ad un ceto borghese medio-alto (il cosiddetto “generone” romano) caratterizzato da complicati (non sempre visibili) intrecci e relazioni tra i sedimentati e tradizionalisti gruppi familiari romani attivamente presenti nei ruoli direzionali dell’amministrazione pubblica e privata (romana e non solo). Caratterialmente era pragmatico, disincantato e spregiudicato: ho avuto modo di constatarlo sia per episodi della sua vita privata che mi sono stati raccontati da testimoni diretti, sia, personalmente, in occasione di sue lezioni universitarie cui ho partecipato da studente. Dunque, ovviamente, Marcello Piacentini era interessato ad intessere continuativi rapporti con gli esponenti del “potere governativo”: qualunque, aggiungerei, esso fosse. E, a loro volta, i principali esponenti del fascismo, ormai stabilmente insediato al potere, erano interessati a stabilire rapporti con i ceti ed i gruppi di cui l’architetto romano faceva parte. Inoltre, passando a delineare un più ampio scenario culturale, non si deve dimenticare che in Italia, superate le pulsioni delle Avanguardie, era ormai in atto un generale tentativo di “ritorno all’ordine” (il già ricordato movimento “Novecento”): tradotto in percorsi di ricerca legati a generiche matrici mediterranee e più precisamente italiche (non senza, peraltro, talune più o meno evidenti smagliature). Ne sono derivate, infatti, soluzioni non certo prive di inquietanti ed ermetici conformismi in base a principi in genere accettati, ma, in certi casi, anche subiti più o meno volentieri (negli anni Trenta talune scelte formali appaiono infatti essere sotterraneamente critiche dei dettati stilistici del fascismo).
Interessa però sottolineare che quel “ritorno all’ordine” era favorito dal fascismo: in particolare dagli esponenti più colti della dirigenza governativa, perché funzionale ad un più vasto ed ambizioso progetto. Quello di guardare al contesto culturale, artistico, e soprattutto architettonico, come strumento per diffondere i valori di quella convenzionale primazia dell’italianità poi destinata a confluire nel messaggio politico sotteso al fittizio e retorico binomio “pacificante romanità augustea = pacificante era fascista”. Un messaggio, questo, i cui sottesi para- metri concettuali e simbolici dovevano essere trasmessi, e proprio a partire da Roma in quanto città capitale, a tutto il territorio italiano. Era dunque necessario trovare chi, per la sua spregiudicatezza culturale e per le sue reti relazionali, fosse in grado di favorire questo processo di mediazione tra più ed eterogenee componenti: il romano Marcello Piacentini. Così, a partire dal 1925 (Mussolini era però Capo del Governo dal 1922) e durante l’intero ventennio fascista, che è il periodo cui si riferisce la maggior parte della qui pubblicata documentazione dell’archivio dell’Ordine degli architetti, Roma diviene di fatto una sorta di laboratorio sperimentale del processo di trasformazione del contesto architettonico ed urbanistico nazionale. Ne vanno però analizzati distintamente i tre ambiti, pur se intimamente legati tra di loro. Non senza tener sempre conto che al processo di trasformazione del tessuto urbano era sotteso un programma ideologico di lunga durata: il fascismo, in quanto regime, era infatti pensato come sistema destinato a durare nel tempo (ben più del “ventennio”: lo evidenzia la drammatica liturgia del 25 luglio 1943 nella quale, proprio nel tentativo di perpetuare il fascismo, gli scissionisti hanno addirittura tentato di esautorare Mussolini). Non a caso in tutti i documenti ufficiali, ed in tutte le altre modalità di comunicazione pubblica (comprese le scritte e le lapidi commemorative), si aggiungeva, alla consueta periodizzazione cronologica dell’era cristiana anche quella della cosiddetta “era fascista”: che originava dal 1922, cioè da quando il fascismo era salito al potere.
I tre ambiti sono i seguenti: quello degli interventi urbanistici; quello delle scelte dei linguaggi architettonici (anche considerati nelle loro valenze simboliche); infine quello della Facoltà di Architettura e cioè della formazione della classe professionistica cui affidare il compito di dar seguito a tale trasformazione.
Interventi urbanistici
Negli anni Venti e Trenta del Novecento, sia in tutte le principali città del territorio nazionale, sia in quelle delle colonie italiane (inizialmente Libia ed Eritrea, poi anche Etiopia), sia in quelle dei possedimenti extranazionali sui quali l’Italia esercitava la propria influenza (indirettamente come, per esempio, nell’Albania degli anni Venti; direttamente nei con- fronti del Dodecanneso, ed ancora una volta, quando cioè venne unita alla corona italiana, dell’Albania), vengono deli- berati ed attuati, talvolta a compimento di procedure già precedentemente avviate, impegnativi piani regolatori. Facendo riferimento, per opportunità narrativa, soltanto al territorio geograficamente italiano, risulta evidente che, soprattutto nelle maggiori o più significative città, erano infatti previsti (spesso anche attuati) interventi intesi da un lato a ridefinirne il volto dei tessuti storici, e, dall’altro lato, a tener conto della loro attuale e futura espansione urbana. Della quale, ed in particolare nel caso delle città maggiori, occorreva tener conto non solo per l’accelerata dinamica dello sviluppo demico, ma anche, e non meno, per incrementare l’attività edilizia di matrice pubblica; favorendo, in tal modo, gli interessi dei ceti medioalti, propriamente alti, o nobiliari. Ciò nell’intento di mettere in moto da un lato un segmento importante dell’economia delle singole città, e, dall’altro lato, ancora una volta di estendere (o rafforzare) il consenso politico al sistema di governo fascista. Basterà ricordare, oltre al caso eclatante di Roma su cui tornerò più avanti, gli interventi pianificatori delle città di Torino, Bolzano, Firenze, Brescia, Bari ed ancora di molte altre.
Tutto ciò avveniva in genere secondo tre distinte, ma anche spesso intersecate, linee guida. La prima di matrice “moderna”, (nella già indicata declinazione “italiana”). La seconda, di linea più tradizionale (questa frequentemente seguita a Roma da architetti iscritti alla sede romana dell’Ordine) entro la quale sono peraltro riconoscibili due differenti tendenze: l’una più direttamente ispirata a stilemi e morfemi di varia origine, l’altra mirante a rielaborare in modo autonomo le matrici tradizionali. Questa oggi indicata, vi ho già fatto cenno, come “altra modernità” (in più casi anche con risultati di rilievo: ad esempio in opere degli anni Trenta di Aschieri e di Limongelli). La terza era quella dell’architettura intenzionalmente e propagandisticamente “fascista”; della quale era caratterizzante il ricorso alla retorica della “romanità” aggettivata in chiave di simbolica fascista (fasci e gladi littori, aquile, lupe romane, nudi eroici od atletici, vanghe ed aratri, iscrizioni con frasi del Duce, temi morfologici allusivi agli stereotipi della propaganda quali, per esempio, spigoli di edifici che ricordano le “prue di navi”, od altro). Ma negli anni Trenta sono anche numerosi i casi di architetti ed ingegneri italiani (tra questi taluni iscritti alla sede romana dell’Ordine professionale) impegnati nella progettazione e realizzazione di importanti ed emblematiche iniziative di fondazione, o radicale trasformazione, di centri urbani o paraurbani. Ciò perché, ed anche se già in un convegno del 1879 era stata sostenuta con forza la necessità della separazione delle due categorie professionali (vi si giungerà invece soltanto molti anni dopo), nel 1923 venne istituito un Ordine professionale che accorpava ingegneri ed architetti. Al quale, inoltre, forse in linea con la riforma Gentile che proprio nel 1923 istituiva i licei artistici, potevano inizialmente iscriversi, sia pure con alcune precauzioni e limitazioni, anche i professori di disegno “pratici”. Ed è infatti proprio per tener conto anche di tale circostanza che venne istituita una speciale Commissione incaricata di esaminare le ammissioni di singoli professionisti all’Ordine professionale allora istituito. Nel 1929 (si tenga conto che è di quegli anni la notissima Villa Savoye di Le Corbusier) la Commissione termina i suoi lavori. Vengono ammessi, tra gli altri, Del Debbio, Foschini, Calza Bini, Michelucci, Brasini, Coppedè, De Finetti, Ettore Sottsass: ognuno dei quali aveva titoli accademici non sempre coincidenti con quelli richiesti dallo Statuto del nuovo Ordine professionale.
Ma, per tornare alla partecipazione dei professionisti romani, alle più sopra indicate iniziative urbanistiche pubbliche basterà ricordare i seguenti casi. Per l’Italia il complesso delle città pontine (ne sono troppo numerosi i progettisti, peraltro ben noti, per poterli qui citare convenientemente) ed altri omologhi centri realizzati su iniziativa fascista in Sardegna ed in altre aree. Per il Dodecanneso (allora territorio italiano anche se situato in un’area geografica esterna all’Italia pro- priamente detta) le iniziative edilizie di riorganizzazione di molti centri e soprattutto della città di Rodi (qui è all’opera Di Fausto). Per le colonie africane le trasformazioni dell’area libica (Tripoli, Bengasi, ed altre città) e, dopo il 1938, l’impe- gnativo (ma poi non realizzato) piano regolatore di Addis Abeba. Per l’Albania, prima della vera e propria italianizzazione politica di quel Paese (ma con esiti anche nella fase successiva), un seguito di due piani regolatori (il primo dei quali si deve a Brasini) per Tirana che era un piccolo e secondario centro, ma che nel 1922, e per iniziativa di più Stati europei, era stato elevato (a spese di Durazzo) a città capitale del Paese allora divenuto Stato indipendente.
Per quanto detto a proposito della costituzione di un unico Ordine professionale, non sorprenderà dunque che, riferendomi agli interventi indicati, io citi assieme i nomi di ingegneri ed architetti. Da tempo, infatti, si era creata una condizione osmotica tra le due figure professionali; anche se, come emerge dai documenti qui pubblicati, la pur sempre distinta formazione, e dunque la correlata professionalità operativa resta il principale dei temi delle ricorrenti controversie tra le due categorie. Ne è prova che nel 1922 la precedente ANII (Associazione Nazionale degli Ingeneri Italiani) si era trasformata in ANIAI (Associazione Nazionale Ingegneri e Architetti Italiani) con esiti che dureranno ancora per molti decenni. Ma per tornare all’argomento delle iniziative urbanistiche (e correlati aspetti edilizi), tra le figure più frequentemente ed incisivamente presenti in più luoghi e centri urbani (o paraurbani), sia storicamente sedimentati, sia di nuovo impianto, risultano quelle (alcune qui già citate) di Limongelli, Florestano Di Fausto, Brasini, Frezzotti, Piccinato, Cancellotti, talvolta Cafiero, Guidi, Cesare Valle (che dopo la seconda guerra avrà una ruolo determinante in tutte le vicende urbanistiche italiane). Alcuni di questi, come emerge dai verbali di cui si dà conto in questo volume, hanno anche avuto posizioni di rilievo sia nel Consiglio dell’Ordine degli architetti (od in altre sue articolazioni storiche quali la Giunta per la tenuta dell’Albo istituita nel 1930, e così via), sia nel Direttorio del Sindacato Interprovinciale Fascista Architetti (del quale, oltre a Calza Bini, farà parte anche Vincenzo Fasolo). Organo, il Direttorio, che, come scrive la Mancuso, si è poi progressivamente sovrapposto alla Giunta: inizialmente, cioè di fatto, dall’ottobre 1936, formalmente dal gennaio 1939. Negli anni Trenta-Quaranta sono per esempio ripetutamente partecipi delle strutture amministrative e deliberanti dell’Ordine romano (cito i nomi più noti), Piacentini, Foschini, Piccinato, Vincenzo Fasolo, Libera, Del Debbio, De Renzi, Cancellotti, La Padula; cui inoltre si aggiungono (ma in un più ristretto numero di casi) Plinio Marconi, Spaccarelli, Giovenale, Frezzotti, e così via. Di alcuni altri compare soltanto il nome in alcuni verbali di Assemblee degli iscritti. Altri ancora risultano presenti solo saltuariamente perché chiamati per compiti specifici. Tra questi Brasini che però ha avuto un ruolo significativo in alcuni rilevanti, ma più tardi, episodi urbani.
Un episodio illuminante è poi quello nel quale, dopo l’emanazione delle leggi razziali del 1938, in un deliberato dell’Or- dine viene riconosciuto all’architetto Vittorio Morpurgo l’avvenuto cambio di cognome. Non si chiamerà più Vittorio Morpurgo ma Vittorio Ballio: perché, come allora talvolta accadeva per aggirare le restrizioni ed i divieti delle leggi razziali, assumeva il nome di sua madre non di “razza ebrea” (ma dopo la caduta del fascismo e la fine dell’occupazione tedesca l’architetto, ed anche professore universitario, assemblerà i due cognomi: diventerà cioè Vittorio Ballio Morpurgo). Quali fossero i principali e simbolici interventi urbanistici (frequentemente con massicci e spregiudicati sventramenti) nell’Urbe durante il periodo fascista è ben noto; li cito però per doverosa precisazione:
a) l’avvio alla formazione della via della Conciliazione per celebrare, e fisicamente rappresentare e rammemorare, l’avvenuta pacificazione tra Stato italiano e Chiesa con la stipulazione, nel 1929, dei Patti Lateranensi;
b) l’impianto e la realizzazione della Città universitaria (sostitutiva della storica sede della Sapienza: intervento corre- lato al nuovo tracciato viario oggi detto Corso Rinascimento) in una zona allora semiperiferica della città, dunque in un’area sostanzialmente priva di fattori vincolanti;
c) la creazione del grande complesso sportivo (allora detto Foro Mussolini ed oggi Foro Italico) in un’area anche in questo caso sostanzialmente priva di vincolanti fattori ambientali ed edilizi: situata cioè poco ad ovest del piazzale di Ponte Milvio che invece era (e lo è tuttora) caratterizzato sia dalla sistemazione architettonica del ponte ad opera del Valadier, sia da taluni piccoli edifici – oggi alquanto trasformati – tuttora esistenti, sia dal tradizionalissimo complesso chiesastico-parrocchiale della Gran Madre di Dio realizzato nel 1931. Va sottolineata la validità della scelta localizzativa: infatti, allora, in quell’area convergevano i traffici automobilistici provenienti dalle direttrici delle vie Cassia e Flaminia;
d) la formazione della piazza Augusto Imperatore, finalizzata a simbolizzare l’equivalenza della “Pax augustea” con la proclamata e cosiddetta “pacificazione” mussoliniana, mediante la demolizione del preesistente fitto tessuto edilizio; cioè a far liberamente campeggiare i resti del mausoleo d’Augusto (anch’esso liberato da superfetazioni edilizie e sovrastrutture di varia natura e funzione: tra queste la frequentatissima sala per concerti dell’Augusteum) ed installare nei suoi pressi la ricostruzione dell’Ara Pacis;
e) la creazione dei due grandi assi viari, che muovono da piazza Venezia e che hanno per cerniera il Vittoriano, me- diante massicce demolizioni dell’esistente stratificato tessuto storico, compreso lo spregiudicato azzeramento – per consentire, ideologicamente ma antistoricamente, che il Colosseo divenisse visibile da piazza Venezia – della collina della Velia; demolizioni, queste, almeno in parte compensate dall’intensificata ripresa, su impulso di Corrado Ricci, degli scavi archeologici dei Fori imperiali. Sono, questi, i due assi che si dirigono l’uno, via dell’Impero (ora via dei Fori imperiali) verso il Colosseo, l’altro, via del Mare (oggi con altre denominazioni) costeggiante le pendici occidentali del Colle Palatino, finalizzato ad immettersi nella direttrice viaria verso Ostia;
f) l’impianto del nuovo quartiere destinato ad ospitare l’Esposizione Universale del 1942 (da qui l’acronimo E42, oggi
trasformato in EUR) pensata per celebrare il ventennale dell’ascesa al potere del fascismo.
Su questi interventi sono però utili queste puntualizzazioni. Che i principali e più simbolicamente significativi drastici in- terventi nel vivo del tessuto storico romano si devono alla diretta volontà di Mussolini. Che l’iniziativa della creazione del Foro Mussolini si deve a Renato Ricci, responsabile degli organismi giovanili fascisti. E che infine si deve a Giuseppe Bottai, principale esponente della cultura del fascismo e che era allora governatore di Roma, la creazione dell’E42; di cui, e fin dal nome (Esposizione Universale del 1942, cioè ventennale della presa di potere del fascismo) sono evidenti i valori politicamente e culturalmente simbolici.
Ma a Roma, sempre in epoca fascista, vi sono stati anche ulteriori interventi privi di intenzionalità e finalità simboliche (tra questi la formazione e rettificazione delle due vie oggi dette, rispettivamente, via Barberini e via Bissolati), ma in altri casi implicanti però non certo secondarie scelte concettuali e metodologiche. Quando cioè, ed ancora una volta (era infatti già accaduto nella fase postunitaria), essi incidevano nel vivo del “quartiere del Rinascimento” cioè della zona storicamente più continuativamente abitata del tessuto insediativo (l’insieme di case ed abitanti) di Roma: ne è parte anche il nuovo tracciato dell’attuale Corso Rinascimento sul quale si proiettano le facciate sia di importanti episodi architettonici della Roma cinque-seicentesca, sia quelle dei nuovi edifici che si devono ad Arnaldo Foschini. Di qui la pole- mica sul rapporto da instaurare tra tessuto storico e città moderna: tra conservazione ed ammodernamento urbanistico. Episodio certamente “romano”, questo, ma con importanti echi in altre città italiane. Di questo tema, a Roma, si sono occupati ripetutamente (con saggi critico-storiografici, occasioni scientifiche, articoli su quotidiani e periodici, e così via) due tra i principali esponenti dell’architettura e dell’urbanistica romana: Giovannoni e Piacentini. Le loro rispettive posizioni concettuali e pianificatorie ed anche i loro rapporti con le istituzioni pubbliche e con il governo fascista, hanno infatti avuto echi non solo a Roma, ma anche in tutta la cultura ufficiale italiana. In particolare per quanto attiene ai programmati (poi anche attuati) significativi interventi urbanistici nei centri storici di importanti città: per esempio nei centri storici di Torino e di Firenze (gli interventi fiorentini sono anche il contesto urbano entro il quale si svolgono le vicende di uno dei romanzi di Pratolini). Il primo dei due, cioè Giovannoni, sostenendo il principio del “diradamento edilizio”: cioè la scelta, oggettivamente arbitraria, di conservare alcuni, piuttosto che altri, degli edifici del tessuto storico. Il secondo, cioè Piacentini, tentando invece, in genere, di non intervenire drasticamente nel tessuto storico per lasciare ad esso le sue caratteristiche principali (salvo opportuni “risanamenti”) e proponendo dunque due distinti criteri pianificatori per la parte “storica” e quella “nuova” della città: alla ricerca, però, di opportuni raccordi tra le differenziate matrici tipologiche e morfologiche rispettivamente peculiari dell’edilizia dell’una e dell’altra parte, tenuto conto altresì che quella della parte storica è a sua volta frutto di stratificazioni e commistioni spesso plurisecolari e dunque riferibili a modalità configurative assai differenziate.
Giova richiamare le caratteristiche degli interventi urbanistici fino ad allora promossi dalle due principali figure di questo dibattito. Si deve sostanzialmente al solo Giovannoni la realizzazione, nel 1921, della Città Giardino nell’area nomentana: un quartiere innovativo per la Roma di allora (fu infatti contestato!) perché ispirato al modello della inglese Garden City (ma, aggiungo, non certo ai più complessi principi riformatori di cui era espressione quel modello). Si deve invece all’effettiva collaborazione dei due, come nel tempo più volte era accaduto, il piano regolatore del quartiere della Garbatella. Nella ben nota vicenda del piano regolatore di Roma del 1930-31, Piacentini e Giovannoni hanno aspramente polemizzato tra loro: ma quasi, si direbbe, a posizioni concettualmente invertite come ora indico sinteticamente.
Nel concorso preliminare all’incarico del piano si erano presentati due gruppi: da un lato “La Burbera” di cui facevano parte Del Debbio, Fasolo, Limongelli, Foschini, Aschieri ed altri; dall’altro lato il GUR, cioè Gruppo Urbanisti Romani, formato da Piccinato, Cancellotti, Nicolosi, Minnucci (che era membro del MIAR, cioè Movimento Italiano per l’Architettura Razionale, e che era anche in contatto con i CIAM) cui poi si è aggiunto Piacentini. Si deve proprio a lui l’aver pubblicamente condannato la proposta giovannoniana di operare veri e propri sventramenti, non dunque interventi di “diradamento”, nel vivo del tessuto romano per dar luogo a due nuovi assi viari (uno dei quali parallelo al Corso, l’altro ad esso ortogonale) con grande piazza centrale. Ha avuto ragione Piacentini e fortunatamente questa proposta è rimasta senza alcun esito. Diventa però emblematica la circostanza che il gruppo incaricato di redigere il nuovo piano regolatore (che sarà approvato) risulti costituito da Piacentini, Giovannoni, e Muñoz, esponente (per la verità poi molto contestato) della cultura archeologica restaurativa della Roma del tempo. Appare infatti evidente il tentativo della committenza di mediare tra impianti programmatici oggettivamente contrapposti e di avvalersi, inoltre, di un funzionario delle istituzioni archeologiche italiane: nelle vicende pianificatorie di Roma, anche a voler tener conto soltanto dei secoli XIX-XX, l’archeologia, era un tema quasi sempre ricorrente.
Le scelte dei linguaggi architettonici
Questo argomento deve essere affrontato distinguendo principalmente tra gli esiti dell’edilizia di committenza privata (o di Enti ed Istituzioni non governative) e quelli dell’edilizia di committenza pubblica e governativa, anche se spesso talune diffuse consuetudini edilizie sembrano comuni ai due casi. Principale, tra queste, è il condiviso e diffuso impiego nelle facciate degli edifici di laterizi (su questo argomento tornerò più avanti), sia strutturali, che coloristicamente contrastati dalle incorniciature degli infissi con elementi in travertino. I cui esiti interessano però anche molte altre città italiane (in particolare dell’Italia centro-meridionale) e non soltanto nell’edilizia ad uso abitativo, ma anche quella per altre finalità. Per esempio negli edifici delle stazioni ferroviarie di piccola o media importanza (in gran parte dovute a Mazzoni), negli edifici assistenziali (i molteplici esempi di “Casa della madre e del fanciullo”), e così via. È però di primaria importanza tener conto della formazione culturale ed artistica degli architetti romani attivi negli anni Venti-Trenta. Perché se è vero che alcuni fra i più noti, ed iscritti all’Ordine professionale romano, hanno svolto la loro attività giocando, per così dire, su entrambi i “tavoli” (commissioni pubbliche e private), è anche vero che altri hanno invece svolto la loro attività quasi soltanto nell’ambito della committenza privata. Un fattore di cui, a tale proposito, è indispensabile tener conto, è dunque il ruolo che nella formazione dei più significativi architetti italiani (ed a maggior ragione di quelli romani) hanno avuto sia l’Associazione Artistica fra i Cultori di Architettura (con acronimo AACAR), fondata nel 1890 di cui, tra il 1927 ed il 1935, sono stati presidenti Giovannoni e, dopo di lui, Piacentini, sia due altre e differenti istituzioni: l’Accademia Nazionale di San Luca ed il Pensionato Artistico Nazionale. È utile ricordare che entrambe hanno promosso concorsi pubblici intesi a selezionare i giovani che aspiravano a seguirne i corsi di architettura; e che, pertanto, l’orientamento morfologico di quanti ne hanno seguito i corsi, almeno in una prima fase, ha inciso più o meno fortemente nella loro attività professionale. Ma valgono anche altre considerazioni. Per quanto concerne l’Accademia di San Luca, è doveroso ad esempio sottolineare che, vista la sua origine, era logica la scelta di favorire, nei temi di concorso, l’indirizzo tradizionale (prima classicistico poi anche barocco) che infatti è proseguita per lungo tempo, ma che, lo sottolinea la tesi di dottorato di Barbara Berta, nei primi anni successivi alla Grande Guerra si registra anche un segnale di cambiamento di indirizzo. Viene cioè ammesso che i concorrenti si adeguino ai modi e linguaggi dell’attualità nel caso di progetti per l’edilizia corrente: soprattutto se di tipo amministrativo o di analoga finalità. E che in ciò sembra di poter cogliere la distinzione tra “architettura” ed “edilizia” (tra poesia e prosa) alla quale però, com’è noto, si opponeva radicalmente il Movimento Moderno interessato invece proprio a definire elementi e metodi progettuali applicabili ad ogni categoria di edifici. Resta dunque vero che, almeno fino ai primi decenni del XX secolo (dal secondo dopoguerra in poi mostra invece un progressivo ed accentuatissimo interesse per l’attualità), nei concorsi dell’Accademia di San Luca era centrale il rapporto con la tradizione stilistica. E che ciò ha notevolmente influenzato la formazione, e dunque anche l’attività professionale, degli architetti attivi a Roma negli anni Venti-Trenta. Ne è un esempio, proprio in quegli anni, l’attività di Emanuele Caniggia. Analogo a quello dell’Accademia di San Luca è, in linea di principio, anche l’indirizzo prescelto per i concorsi di ammissione al premio e borsa di studio di un istituzione di interesse pubblico qual’era il Pensionato Artistico Nazionale (della correlata borsa ha usufruito, tra gli altri, anche Del Debbio). Ed analogo è anche l’indirizzo tradizionalistico prescelto dall’Associazione Artistica fra i Cultori di Architettura (è in questo ambito che prende origine il già ricordato “barocchetto” romano). Mentre si deve tener conto che in quegli anni l’insegnamento dell’architettura avveniva anche nelle Accade- mie di Belle Arti (vi ha insegnato anche Foschini) che consideravano la ricerca del linguaggio architettonico come una variante del più tradizionale insegnamento del disegno artistico. Non a caso, a Roma, figura centrale del rapporto tra Accademia di Belle Arti e Scuola Superiore di architettura (poi Facoltà universitaria) è Fausto Vagnetti. Che infatti, sino ai primi anni del secondo dopoguerra, ha insegnato “disegno dal vero” nella allora già divenuta Facoltà di Architettura romana. Eccone un mio ricordo studentesco. Vagnetti indossava sempre (dunque anche all’Università) un grande cappellone nero a larghe falde ed inoltre (al posto di una cravatta) un altrettanto largo fioccone nero da romantico pittore ottocentesco. Noi lo provocavamo parlando di cubismo, di Picasso, e così via, ma soprattutto di Guttuso, allora considerato l’astro nascente della moderna pittura italiana perché (si diceva) in grado di declinare, ancora una volta in chiave di “realismo italiano”, anche il cubismo di matrice picassiana.
Torno in tema. La storiografia relativa alla produzione architettonica ed urbanistica romana del ventennio fascista è in genere finalizzata a focalizzarne e valutarne gli episodi maggiori: per quanto attiene alle scelte di linguaggio, di esse parlerò più diffusamente in seguito. Tuttavia il mutare del “volto” del tessuto cittadino è anche effetto di singoli ma diffusi episodi edilizi di minore impatto ma, al tempo stesso, meno condizionati dalla linea ufficiale. Degli autori di questi inter- venti, salvo quando taluni di essi hanno avuto ruoli decisionali e consultivi nell’Ordine romano degli architetti, vi sono in genere poche tracce nella storiografia sull’architettura romana della metà del secolo scorso. Una figura a sé stante è però quella di Giulio Pediconi (tra l’altro attivo anche nelle strutture organizzative dell’Ordine professionale romano) che ha svolto la sua intensa e raffinata attività sempre in tandem con Paniconi. Nel 1931 Pediconi ha anche fatto parte del RAMI (Raggruppamento Architetti Moderni Italiani, contrapposto al MIAR, del quale hanno anche fatto parte De Renzi, Moretti, Nicolosi, Petrucci, Marchi, Tufaroli ed altri ancora) che sosteneva la “storica supremazia dell’architettura italiana”. Ma, assieme a quelle degli architetti ora nominati così come a quelle dei “moderni”, anche le sobrie scelte linguistiche di Pediconi (non però omologhe a quelle di Aschieri) e di qualche altro hanno configurato in più punti l’edilizia privata romana destinata in genere a ceti di livello medio-alto. Nei confronti della restante maggioranza degli architetti iscritti all’Ordine romano, può invece valere la seguente osservazione che spiega appunto il silenzio storiografico sulle loro opere. Così come Musil, nel 1930, parlava di “uomo senza qualità”, anche la produzione di questi architetti è stata spesso considerata “senza qualità”: solo “professione”, o “professionismo”; più o meno (o per niente) rispettabile perché nelle loro opere risulterebbe assente il requisito venustas della triade vitruviana. Ed è da qui, ritengo, che dopo la fine della seconda guerra mondiale (e connessi tragici eventi ed esiti) e soprattutto nei decenni Cinquanta-Sessanta, è poi scaturito quel non sempre giustificato atteggiamento di “sufficienza” e distacco che gli architetti romani politicamente e culturalmente “impegnati” (nel significato che allora veniva attribuito a questo aggettivo), hanno ostentato nei confronti dell’Ordine professionale di appartenenza.
Per tornare al ventennio fascista, ritengo però utile considerare che proprio la diffusiva produzione di quegli architetti ha avuto il non secondario, anzi incisivo (in senso sia positivo che negativo), ruolo di “basso continuo” nel suono or- chestrale del nuovo configurarsi dell’intero tessuto insediativo dell’Urbe (le degradate e degradanti “borgate” venutesi a creare per gli interventi urbanistici indicati, così come quelle delle espansioni verso il mare, esulano però da queste considerazioni). In quegli anni hanno infatti avuto ulteriore, o nuovo, sviluppo alcune parti della città che qui richiamo in un breve elenco. Il quartiere cosiddetto Monte Verde Nuovo situato a monte del viale del Re (ora viale Trastevere); i quartieri Prati – Delle Vittorie, lo slancio realizzativo-speculativo dei quali era però stato interrotto, sul finire dell’Otto- cento, dalla profonda crisi finanziaria ed immobiliare (del quadro desolante e di profondo degrado degli edifici rimasti interrotti dà testimonianza Zola in suoi appunti del 1894 recentemente pubblicati in italiano) e che ritrovano in parte il loro slancio edilizio a seguito dell’esposizione del 1911. A tale proposito si deve dunque ricordare l’impianto della piazza Mazzini, caratterizzata da un grande spazio quadrangolare con alberature e grande vasca fontana centrale (che si deve a Piacentini e Giovannoni) e l’avvio alla pluridecennale realizzazione della chiesa di Cristo Re dovuta, questa, al solo Piacentini. Riguardo alla fase finale interessa sottolineare che Piacentini si è attenuto, condividendone i criteri, alle scelte dell’oggi dimenticato (ma allora ben conosciuto) architetto tedesco Dominikus Böhm: perché questo, e proprio per le chiese, aveva infatti sistematicamente adottato l’impiego dei mattoni rossi per le facciate.
Proseguo ora con altri esempi di quello sviluppo di Roma degli anni Venti e Trenta (quando i maestri del Movimento Moderno erano alacremente attivi sia nel contesto internazionale europeo sia in altri contesti: basti pensare al piano di Le Corbusier per Algeri) che ho definito con la metafora del ruolo di “basso continuo”. Il quartiere incentrato sulla parte settentrionale di via Flaminia e proiettato sui correlati Lungotevere allora solo da poco completati (è del 1925 la configurazione dello “scalo De Pinedo”). È bene soffermarsi brevemente sulle scelte linguistiche di taluni edifici, anche multipiano e cioè o per ceti medio-impiegatizi o popolari (talvolta anche riferibili agli schemi a lotto chiuso con giardino interno) di questo quartiere. Perché in questi complessi edilizi sono spesso (incongruamente ed inopinatamente) presenti riferimenti, più o meno espliciti od anche solo liberamente interpretativi, a temi decorativi della tradizione (allusione a timpani od altri simili riferimenti morfologici).
Ma riprendo l’elenco delle vicende del “basso continuo” edilizio di questo tempo. In primo luogo i “quartieri alti” e cioè il quartiere Parioli (compresi gli sviluppi di Villa Balestra) ed il correlato quartiere conosciuto come “dei musicisti” sorto all’esterno di Porta Pinciana. In secondo luogo, ed è caso a sé stante, il quartiere Coppedè avviato attorno al 1915-16 ed ancora incompleto alla morte dell’architetto nel 1927. Ho parlato di caso a sé stante perché all’architetto, che non era romano, gli organi deputati all’edilizia cittadina hanno imposto l’adeguamento a temi “romani” (sostanzialmente disatteso: solo pochi ed incongrui elementi decorativi ed un parziale uso del travertino). Fatta appunto eccezione per il quartiere Coppedè, nei ricordati principali quartieri cittadini sono all’opera, in genere su committenza privata, molti, e taluni valenti, architetti romani. Si devono a loro numerosi villini monofamiliari di impronta floreale, complessi per abita- zioni alto-borghesi, palazzine di varia natura, edifici abitativi multipiano, scuole, chiese, edifici per spettacolo e così via. Basterà ricordare, assieme a molti altri, il giovane Marcello Piacentini che negli anni Venti ha costruito nel quartiere Prati la “Casa Madre del Mutilato”, lungo viale della Regina una palazzina (questa caratterizzata da combinatori richiami linguistici a temi non italiani), in piazza in Lucina il Cinema Corso ove, nella facciata e non solo, ha adottando un linguaggio nel quale si mescolavano Secessione viennese, Jugendstil e componenti tardo floreali (il cui impaginato architettonico è stato poi modificato perché giudicato incongruo). I già citati Aschieri e Limongelli (nelle opere di quest’ultimo sono stati individuati riferimenti anche alla viennese Wagnerschule). Più opere di Vincenzo Fasolo tra le quali, in particolare, il Liceo Mamiani (qui in chiave di “barocchetto”) nel quartiere Prati e, nei pressi di Porta San Paolo, l’eclettica Caserma dei Vigili del Fuoco situata tra via Galvani e via Marmorata. Lo studio Passarelli cui si devono numerosi edifici di committenza religiosa. I due Busiri Vici (Andrea e Clemente) che hanno rispettivamente prescelto, in particolare nell’edilizia chiesastica, o la tradizione “neo-tardopaleocristiana”, oppure (Clemente) una mediazione delle linee tradizionali con il “moderno” come nella chiesa di S. Roberto Bellarmino. Emanuele Caniggia che si è privilegiatamente attenuto alle linee tradizionali preferite dall’Accademia di San Luca (riferimenti cinque-secicenteschi mediati da espliciti o meno evidenti eclettismi “moderni”). I sobri interventi edilizi di Roberto Marino (un ingegnere), principale tra i quali il Ministero dell’Aeronautica dotato di impianti tecnici allora di avanguardia (tra questi la posta pneumatica e l’ascensore “a pater noster”) ed aggettivato, nell’interno, da vetrate e decorazioni pittoriche di noti artisti. E via seguitando.
Insomma tutti questi, ed altri, architetti hanno steso l’ordito di una tela sulla quale architetti più talentati, o fortunati, hanno saputo e potuto innestare la trama di un loro proprio, molto più appariscente e “colorato”, segno. Che, talvolta, diviene anche intenzionalmente contestativo quale quello che di volta in volta ha aggettivato in chiave di “modernità” il tessuto cittadino con singoli edifici oppure con interi complessi edilizi. In linea, in ciò, con quanto, in altri Paesi, europei e non solo, andavano man mano realizzando i maestri del Movimento Moderno. Il quale, nel pieno degli anni Trenta (fatta però eccezione per Le Corbusier che perseguiva un suo autonomo percorso), da un lato, per il confluire negli Stati Uniti di architetti europei di varia provenienza e caratterizzazione, si era in parte omologato incanalandosi nel cosiddetto International Style; e, dall’altro lato, in Europa ed in particolare ad opera di Aalto, era approdato alla cosiddetta “architettura organica” (peraltro non intesa nella stessa linea di Wright).
Tornando alle vicende romane, va però sottolineato che, oltre a quelli già segnalati, erano all’opera anche architetti di collocazione differente da quelle sin qui ricordate. Sia quelli che ora, dopo molti anni di ostracismo, tornano ad essere talvolta rivalutati. Sia, al contrario, quelli che hanno avuto fortuna in anni passati ma la cui opera va oggi sempre più scomparendo dalla memoria storiografica: fino, quasi, a sparire nell’oblio. Appartiene al primo gruppo Mazzoni. Alla sua fase iniziale si devono numerose opere, soprattutto quelle riferibili alle strutture tecniche delle stazioni ferroviarie, in qualche misura riferibili alle tematiche delle Avanguardie dei primi due decenni del XX secolo: da quella futurista, nella linea solo propositiva (disegni di progetti non eseguiti) che da Sant’Elia giunge fino a Virgilio Marchi, a quella espressionista forse echeggiante il Costruttivismo russo, e così via. Alla fase più tarda dell’attività di Mazzoni appartiene il suo intervento sulle ali laterali della stazione Termini ove invece risultano adottati gli stilemi di una rivissuta “romanità” nella chiave (ne riparlerò a proposito dell’E42) del “classicismo metafisico” dechirichiano, poi negativamente giudicato tradizionalistico. Rientrano invece nel secondo gruppo altri architetti alcuni dei quali anche in qualche misura presenti nelle strutture dell’Ordine professionale romano. Minnucci, che ha fatto parte del MIAR, che è stato direttore dei lavori per l’E42 e che, nell’ambito della quale ma anche in altre occasioni e località, ha realizzato opere pubblicate nel Manifesto del Gruppo7 e nelle quali sono stati individuati riferimenti all’architettura degli olandesi Oud o Dudok. Piero Bottoni, le cui opere (ma anche la sua attività convegnistica ed editoriale) sono state alla ribalta, e non solo a Roma, fino ai primi anni del secondo dopoguerra, ma che ora è in parte trascurato. Guido Fiorini, laureato in ingegneria ma con specializzazione in architettura che negli anni Trenta (è suo un allora importante studio sulle “tensostrutture”) ha avuto contatti con Le Corbusier ed ha dunque impostato i suoi primi progetti riferendosi più o meno direttamente a lui (ma poco dopo, e da allora, si è dedicato alla scenografia cinematografica).
Entro ora nel merito dei principali episodi del divenire urbanistico di Roma durante il ventennio del governo fascista; cui, ovviamente, partecipano, e spesso con ruolo protagonistico, molti architetti romani. Ho già accennato alle articolate scelte tipologiche e morfologiche, non sempre omologhe e congruenti, che hanno caratterizzato l’architettura ufficiale romana tra gli anni Venti e gli anni Quaranta del XX secolo.
Cioè quella che, direttamente od indirettamente, il governo fascista ha promosso o contribuito a far sviluppare in quei decenni anche mediante le istituzioni istituzionali-partitiche di scala localistica. Suggerendone, favorendone, ed in taluni casi perfino imponendone, i morfemi volta a volta giudicati funzionali ai propri interessi e valori simbolici: a ciò che altre volte ho definito significato “politico” del “sistema decorativo”.
Non è qui il caso di entrare sistematicamente in questo assai complesso tema: mi limito soltanto ad esporne i contorni prendendo ad esempio alcune delle più significative realizzazioni degli anni Trenta del XX secolo. In primo luogo due significative opere pubbliche: due edifici per le Poste entrambi realizzati tra il 1933 ed il 1935. Quello di Ridolfi e Fagiolo a piazza Bologna che, nell’incurvarsi della superficie della facciata, peraltro imposto dalle locali esigenze urbanistiche, potrebbe essere interpretato come un primo segnale della penetrazione, a Roma, della componente “organica” di Alvar Aalto (il suo sanatorio di Paimio è del 1932): nell’accezione europea della definizione (Wright c’entra poco). E che invece nella configurazione e nel ritmo delle aperture fa riferimento alla grammatica ed alla sintassi razionalista, e che nell’aerea ed apparentemente autonoma pensilina di copertura sembra far omaggio alle immagini della aeropittura futurista di quegli anni. E quello di Libera e De Renzi situato presso Porta San Paolo. In riferimento al quale valgono queste considerazioni: che se è ovvio il riferimento di Libera alla linea razionalista, molto meno ovvio è invece l’approdo di De Renzi a tale linea; in quanto in precedenza, come detto, aveva invece aderito al “barocchetto” e partecipato al gruppo La Burbera.
Ma è ora il caso di analizzare le scelte tipologiche e linguistiche degli episodi di ben maggiore impatto edilizio e simbolico: i già ricordati grandi complessi della Città universitaria, del Foro Mussolini, della piazza Augusto Imperatore, e, soprattutto, del nuovo polo urbano dell’E42. Per quanto concerne la Città universitaria va sottolineato che era esplicita volontà di Mussolini che alla creazione della città universitaria di Roma partecipassero tutti i principali esponenti delle pur diversificate correnti dell’architettura italiana del tempo: da quella del razionalismo a quella della tradizione “italiana”. Ciò, come risulterebbe, venne infatti esplicitamente richiesto dal Duce a Marcello Piacentini nel momento stesso (1931) in cui gli aveva conferito l’incarico della progettazione del piano d’insieme (e conseguente coordinamento dell’intervento). È evidente il significato politico di questa richiesta: l’architettura doveva farsi strumento di un “sistema decorativo” ufficiale mirato a documentare la trasformazione della “Rivoluzione Fascista” in stabilizzato “regime”: politico e culturale. Appunto ciò che Piacentini, per la sua compromissoria e spregiudicata mediazione culturale e professionale, poteva riuscire ad ottenere meglio di ogni altro. Ne è scaturito un coordinante quadro morfologico e linguistico, di matrice “classicistica” (assialità e sostanziali simmetrie nella disposizione degli spazi e degli edifici) che sembra anticipare gli stilemi che altri due architetti tedeschi, Fahrenkamp e Speer, adotteranno pochi anni dopo nel quadro della cultura hitleriana. Ed è proprio in ragione di questa unificante matrice classicistica che risulta significativa la gerarchia distributiva delle sedi delle varie Facoltà nel contesto della Città universitaria e la correlata attribuzione degli incarichi: vi si legge un criterio di scelta che non mi appare affatto casuale. Non è certo il caso di entrare in un’approfondita e dettagliata analisi delle scelte tipologiche e morfologiche dei molti architetti implicati nella realizzazione del complesso. Oltre, ovviamente, a Piacentini, citerò tuttavia il nome di alcuni di essi le cui opere hanno maggiormente inciso nel caratterizzare gli spazi e gli edifici del nuovo polo urbano. Sono all’opera Foschini, Pagano, Ponti, La Padula, Libera, Michelucci, Minnucci (qui anche direttore dei lavori del complesso), Capponi, Aschieri, i più giovani Muratori, Fariello, Quaroni, e così via. Insomma una programmata rappresentanza di significativi architetti di più città (oltre Roma, anche Firenze e Milano) e di altrettanto diversificate linee culturali. L’ingresso ufficiale è marcato dai “portici” di Foschini (ve ne saranno echi nell’università di Tirana) cui fanno seguito altri suoi edifici. Al centro, ortogonalmente all’asse compositivo centrale e dunque in localizzazione visivamente dominante, sono situati gli edifici di Piacentini destinati al Rettorato (e connessa aula magna) ed alle facoltà giuridiche caratterizzati dal linguaggio “ufficiale” di marca romana: mattoncini rossi contrastati dal bianco dei travertini degli infissi e degli elementi dei portali allusivi alla semplificazione del lessico classicheggiante (il traverti- no è utilizzato anche per la grande vasca centrale sulla quale campeggia, su alto basamento, la statua bronzea della Minerva di Arturo Martini). In una collocazione semicentrale (in prossimità dell’incrocio tra i due principali ed ortogonali assi compositivi) è situata la Facoltà di matematica di Ponti (ancora una volta echeggiata a Tirana nell’allora Casa del Fascio) le cui superfici marmoree conseguono all’esplicita adozione del classicheggiante “ritorno all’ordine” del movimento Novecento. In collocazione via via meno centralizzata sono collocati gli edifici di altre sedi di Facoltà dovuti ad architetti di più evidente impianto razionalistico od anche (è il caso di quello di Capponi) riferibili a componenti espressionistiche. Un’insolitamente appartata e periferica localizzazione, ma anche in ciò si può indovinare un sottostante ma diverso significato simbolico, è stata prescelta per la chiesa di Piacentini che adotta lo schema centrale cupolato ed il già ricordato impianto linguistico “romano”.
E si potrebbe seguitare. Ma vale la pena di considerare due altri elementi di questo grande intervento: la data d’inizio dei lavori, il 1931, è quella nella quale era stato imposto ai docenti universitari il giuramento di fedeltà al fascismo, ed il 1935, data dell’inaugurazione, è quella nella quale Bottai era divenuto governatore di Roma ed aveva ufficialmente ricevuto, in Campidoglio, i giovani della Hitlerjugend.
Passo ora ad analizzare un altro importante intervento in certa misura cronologicamente parallelo a quello della Città universitaria: il Foro Mussolini promosso dal governo fascista nel 1932 (solo un anno dopo l’avvio della Città universitaria) e di cui ho già indicata la corretta localizzazione. È significativo il sorgere e l’evolversi di questo complesso. Promosso da Renato Ricci, importante gerarca fascista carrarese responsabile dell’Opera Nazionale Balilla (ONB: l’organizzazione fascista dei giovani adolescenti), l’incarico progettuale e realizzativo viene affidato a Enrico Del Debbio (anche lui nativo di Carrara) allora direttore dell’ufficio tecnico dell’Opera Balilla e da tempo inserito nel contesto roma- no. Nel 1914 aveva infatti vinto una borsa di studio dell’Accademia di San Luca di cui Barbara Berta riporta l’interessante motivazione: “… partendo da elementi classici greco-romani ha saputo trovare un insieme veramente moderno …”.
Sono infatti indicativi di questa sua formazione e della sua attività professionale dei primi anni Venti (ne dà conto Maria Luisa Neri) da un lato alcuni suoi villini a carattere ecletticamente liberty e, dall’altro lato, un gruppo di bellissimi disegni nei quali si colgono riferimenti ad opere di Wagner e, dunque, anche ai disegni “futuristi” di Sant’Elia: appunto un quadro formativo sostanzialmente eteronomo. Come è ben noto, si deve a Del Debbio l’originario piano generale del complesso incentrato su un coordinante asse lungo il quale sono distribuiti la piazza principale, il retorico “stadio dei marmi” (corredato, come anche in alcuni edifici e spazi, di statue di nudi atletici improntati ad una grecità preclassica) ed altri impianti sportivi. Il complesso si apre con un sistema edilizio, quello degli edifici principali, che, per la loro disposizione (due bracci paralleli uniti da un altro edificio con sottostante arco), configurano, secondo una ben nota soluzione plani- metrica di origine classicistica, un’ampia corte d’ingresso qui ulteriormente enfatizzata da un alto monolite marmoreo su basamento anch’esso marmoreo (del romano architetto Costantini). L’asse compositivo centrale si prolunga poi nel più tardo ponte Duca D’Aosta (di Fasolo) sul Tevere (caratterizzato da un bianco rivestimento marmoreo ulteriormente aggettivato, alle sue due testate, da blocchi parallelepipedi marmorei con rilievi scultorei che illustrano vicende belliche riferite al Duca sabaudo) finalizzato a collegare il nuovo complesso con le propaggini settentrionali del Quartiere Flaminio. Va qui poi sottolineato che la segnalata motivazione del premio ottenuto da Del Debbio, cioè il suo interesse ad operare una combinazione (eclettica?) tra elementi della classicità e temi della modernità contemporanea, trova con- ferma nei due principali e più rappresentativi edifici del complesso le testate dei quali sono aggettivate da nicchie con statue marmoree di nudi di atleti. Sul generalizzato colore rosso delle pareti di questi edifici risalta infatti il bianco degli elementi dei portali e delle incorniciature delle finestre; gli uni e le altre dei quali sottolineati da elementi cilindrici allusivi a colonne ed a pseudo “timpani spezzati” che richiamano soluzioni traianee: si individuano qui i rapporti con gli ordini architettonici “semplificati” secondo uno dei metodi da allora, e per molti anni, adottati dalla didattica progettuale nella Scuola di Architettura romana. Vi è chi ha visto in questi edifici (ed anche nei progetti delle varie Case del Balilla che si devono a Del Debbio) qualche rapporto con l’architettura svedese di quegli anni (probabilmente quella della prima attivi- tà di Asplund): giudizio, questo, che a me appare però incongruo. Si deve infatti tener conto del già segnalato peculiare contesto “romano” entro il quale si inscrivono quelle scelte di linguaggio: lo stesso già adottato da Del Debbio nel 1925 per la nuova sede della Scuola Superiore (poi Facoltà) di Architettura di Roma. È invece significativo il cambio di regia nella realizzazione del complesso: nel 1933, quasi improvvisamente, l’incarico di coordinare e sviluppare l’impianto del Foro Mussolini viene tolto a Del Debbio, che lo aveva delineato ed avviato a realizzazione, ed affidato a Luigi Moretti. Nei documenti ufficiali risulta che Del Debbio lasciò di sua volontà l’ONB (Opera Nazionale Balilla: stazione appaltante del nuovo grande impianto sportivo romano) e dunque anche l’incarico progettuale e direzionale del complesso. Ma, considerato il quadro politico (un regime dittatoriale) di quegli anni, tale “spontaneità” è dubbia. Ne sono sintomi le rea- zioni che Del Debbio ha sempre avuto nei confronti di chi lo interrogava su questa vicenda: lasciava cadere il discorso e “glissava” sull’argomento, non nascondendo, però, le sottese animosità verso Moretti. In ogni caso la nuova direzione ha segnato un cambio di regia almeno quanto al carattere degli edifici (ma non solo). È quindi interessante constatare che quattro anni dopo, cioè nel 1937, la ONB viene assorbita nella più generalizzante GIL (Gioventù Italiana del Littorio). Pur se Ricci ha mantenuto fino a tale data la dirigenza formativa della gioventù, nel nuovo assetto la guida passa ora (ma formalmente solo dopo quattro anni) nelle mani di Starace: segretario del partito fascista più vicino a Moretti che a Del Debbio. In questa vicenda, insomma, Del Debbio potrebbe esser stato sacrificato nella lotta, e non è difficile pensare che sia durata quattro anni, tra i due gerarchi fascisti, diversi per origine e formazione.
L’ingresso di Moretti nella realizzazione del Foro Mussolini imprime fin da subito un’impronta indelebile nell’iniziativa in corso di realizzazione. Oltre ad una meno sottolineata modifica (una sua accentuazione in direzione ovest) dello schema programmatico del complesso delineato da Del Debbio, è evidentissimo il nuovo contesto di riferimento, tipologico e linguistico, delle opere di Moretti. Ne sono episodi principali la Casa della Scherma (più nota come Casa delle Armi); la grande piazza dell’Impero, entro la quale vi è la fontana con la sfera marmorea degli architetti Pediconi e Paniconi; più in generale, la sistemazione di tutta la zona circostante; inoltre la fino a pochi anni fa poco nota Palestra del Duce (nella quale egli si sarebbe dovuto allenare per “mantenersi in forma” e far così emergere anche la sua efficienza populistica in chiave fisico-sportiva: la figura del “fascista” che, secondo la simbolica politica di cui era sostenitore e divulgatore Starace, doveva apparire “maschio” e “sportivo”). A differenza delle opere di Del Debbio, quelle di Moretti, riferite a scelte tipologico-morfologiche in linea con le concezioni e le tematiche dell’architettura razionalistica, sono tutte rivestite dalle bianche lastre in marmo di Carrara. Forse, viene da pensare, perché il diffuso impiego del marmo carrarese (certo adottato anche nelle architetture di Del Debbio, ma solo nei dettagli ed in imponenti episodi scultorei) era ancora una volta funzionale all’intento del governo fascista di azzerare ogni possibile opposizione al suo sistema politico. In questo caso appariva cioè importante sostenere la ripresa di attività delle cave estrattive carraresi che in quel periodo erano in crisi: il governo temeva infatti che tale crisi potesse ravvivare la latente ostilità dei cavatori (tradizionalmente di appartenenza anarchico-socialista) al sistema fascista.
Ma torno in tema. Il sistematico ricorso al rivestimento marmoreo delle superfici (ammorbidite da incurvature degli spigoli e da altri simili artifici) delle opere realizzate da Moretti nel grande complesso sportivo, cioè la declinazione “italiana” del linguaggio architettonico del Razionalismo da lui adottato in chiave, cioè, è stato detto, di reminiscenze, o meglio di allusioni, alla tradizione “classica” (ma io direi piuttosto ad una diffusa cultura “mediterranea”) che è appunto ciò che distingue le sue opere da quelle del Razionalismo internazionale. Anche se, e quando, di queste, è accolta la stereometria dei volumi e la sintassi che ne regola l’articolazione. Un corollario edilizio dell’impianto sportivo è il vicino edificio inizialmente finalizzato ad altre funzioni (Palazzo Littorio, Ministero delle colonie africane) ma rimasto incompleto fino agli anni Cinquanta quando è divenuto sede del Ministero degli Affari Esteri. Interessa citarlo nel quadro dell’attività degli anni tra le due guerre di una triade di architetti romani, Del Debbio, Foschini, Ballio Morpurgo, anche se esso è stato completato solo successivamente (i lavori si erano interrotti poco dopo la realizzazione di alcune sue strutture in cemento armato) e se in tale completamento (e parziale modifica) sono intervenuti soltanto Ballio Morpurgo e Del Debbio.
Passo ora alla vicenda della realizzazione della piazza Augusto Imperatore.
Le scelte morfologiche (non quelle politico-ideologiche) che hanno guidato questa iniziativa richiamano alcune di quelle ora indicate. L’intervento, che in questo caso incide profondamente in una parte significativa del pieno centro storico di Roma, è frutto di una esplicita decisione di Mussolini che, nel 1937, ne ha affidato l’incarico progettuale a Vittorio Morpurgo (subito dopo, come detto, divenuto Vittorio Ballio). Il Duce intendeva liberare il mausoleo di Augusto sia dalle modifiche e superfetazioni intervenute nel tempo, sia dal fitto tessuto edilizio entro cui esso era allora inserito: nell’in- tento di collocare nel nuovo spazio urbano, entro un apposito contenitore edilizio, la qui ricostituita Ara Pacis che, in origine, era invece situata in una differente parte della vasta area dell’intervento augusteo. Il fine di questa operazione era proporre il già segnalato ideologico parallelismo concettuale tra pacificazione e splendore dell’età augustea ed in- novativo “pacificante splendore” dell’età fascista. Ciò premesso e ricordato, entro ora nelle scelte di linguaggio adottate nella realizzazione della piazza Augusto Imperatore: concettualmente analoghe a quelle già adottate da Piacentini (ed anche, su esplicita indicazione sua o della committenza, da altri progettisti) nella Città universitaria. Però, piuttosto che delle analogie, conviene tener conto delle differenze. Nella piazza Augusto Imperatore gli edifici sono tutti porticati. Le facciate degli edifici sono rivestite in travertino ed alcune di esse sono caratterizzate da inserzioni figurative (bassorilievi, superfici mosaicate, scritte in caratteri a forte rilievo). Ed infine, ad elemento di transizione tra i fusti cilindrici e le soprastanti orizzontali dei portici, invece delle più eleganti e sottili terminazioni che, salvo qualche caso meno felice, aggettivano i porticati della Città universitaria, nei porticati della piazza augustea sono stati inseriti collarini di non certo felice configurazione interpretativa. Varianti, tutte queste, che indicano come nel frattempo, cioè nel giro di pochi anni, si era decisamente affermato un linguaggio architettonico ancor più intenzionalmente ed autoritariamente di regime. Passo infine all’ultima importantissima iniziativa fascista: la creazione del nuovo polo urbano dell’E42. Ne è stato pro- motore, nel 1936, Giuseppe Bottai (allora Governatore di Roma) per celebrare nel 1942, con un grande esposizione internazionale, il ventennale della “Rivoluzione Fascista” e cioè dell’ascesa del fascismo al potere. L’incarico di redigere il piano d’insieme è stato poco dopo affidato a Piacentini, Pagano e Vietti; ma poi, di fatto, resterà all’opera soltanto Piacentini (qualche ruolo lo hanno però avuto anche Moretti e Libera). Anche in questo caso, a dar seguito a questa ambiziosa iniziativa sono stati chiamati gruppi di differente contesto professionale. Da un lato i principali ed affermati architetti “moderni” italiani (in particolare di Roma e di Milano): Libera, Moretti, il “convertito” De Renzi, Minnucci, Figini e Pollini, il gruppo BBPR (Belgioioso, Banfi, Peressutti, e Rogers): gruppo, quest’ultimo, che sarà però quasi subito drasticamente mutilato prima a causa delle sopravvenute leggi razziali, qualche anno più tardi a seguito della morte in guerra di altri due suoi componenti. Dall’altro lato affermate figure di spicco del contesto romano “non moderno”; principale, tra questi, Arnaldo Foschini ed in secondo luogo Aschieri. Infine, e differentemente dalla vicenda della Città universitaria, anche architetti sempre di formazione romana, ma della leva più giovane, anche laureati da poco. Cito, in particolare, La Padula, Minnucci, il gruppo Muratori-Fariello-Quaroni. Comunque, oltre a quelli qui ricordati, anche molti altri architetti sono stati impegnati nella realizzazione dell’E42. Una prima osservazione che scaturisce dall’analisi della vicenda è l’attenzione alla localizzazione del nuovo complesso insediativo. Il fatto cioè che sia stata scelta un’area allora del tutto esterna al tessuto di Roma ed espressamente situata sulla direttrice viaria per il lido di Ostia: che, nel programma fascista, era pensato come polo del privilegiato “mare dei romani”. Così l’E42 è divenuta una sorta di centro urbano a sé stante ove era logica una pianificazione ben coordinata tradotta in scelte morfologiche e tipologiche prive di ogni condizionamento. Anche perché, statutariamente, l’E42 era un ente autonomo e dunque non soggetto alle norme dei piani regolatori dell’Urbe ed ai correlati regolamenti edilizi. Al programma generale hanno partecipato, all’origine, Piacentini, Pagano e qualche altro. Ma subito dopo, usciti di scena gli altri, Piacentini è rimasto l’unico responsabile del pianificare e coordinare l’assetto urbanistico del complesso. Ne è nato un impianto ben coordinato: ancora una volta centrato su due assi ortogonali. Principale quello longitudinale, cioè quello della viabilità di attraversamento verso Ostia, ma non certo meno significativo quello trasversale. Come da tradizione, l’incrocio tra i due assi principali diviene una vasta piazza (al centro della quale si erge un obelisco marmoreo) che poi si dilata ortogonalmente in altri spazi ed edifici porticati. L’ufficialità del programma, l’Esposizione Universale, ha suggerito anche la scelta di tipologie e di linguaggi dotati di forte valenza “classicistica”: nella chiave volutamente “letteraria” e simbolica della definizione. Di qui il tante volte segnalato aspetto di stralunato luogo metafisico omologo agli spazi ed agli edifici dei dipinti di De Chirico. Luogo nel quale le componenti “razionaliste”, in particolare quelle degli apporti di Libera e di Minnucci, così come quelli del gruppo Muratori-Fariello-Quaroni, si stemperano, negli estesi e ricorrenti porticati ad alti fusti cilindrici, in eleganti ed estenuate geometrie, e linearismi (mnemonicamente, ma non certo filologicamente) allusivi ad un ambiente ellenistico. Non differentemente, del resto dai due paralleli edifici parigini del Trocadéro che, osserva in un recentissimo libro Gianfranco Spagnesi, inquadrano la visione della Tour Eiffel, né dall’edificio per il Museo della Civiltà romana di Aschieri: episodi architettonici, sia l’uno che l’altro, non certo felici. Insomma, nel complesso dell’E42 la già segnalata componente “classicistica” di marca italiana ha avuto la meglio sulle radici “razionaliste”: anche quando queste sono sufficientemente individuabili in alcuni dei seguenti principali episodi del complesso. Quali, ad esempio, il marmoreo Palazzo dei Congressi di Libera (un alto cubo, figurativamente coperto con volta a crociera è invece una leggera, non “spingente”, struttura in cemento armato, che emerge da un porticato che immette negli ambienti del piano terra), ed il Palazzo degli uffici di Minnucci. Diverso è invece il caso del Palazzo della Civiltà italiana di Bruno La Padula (ed altri): per consuetudine definito “Colosseo Quadrato” perché, con le sue quattro analoghe facciate, ciascuna delle quali costituita da sei piani sovrapposti di aperture ad arco, intende alludere esplicitamente (forse per diretto suggerimento di Mussolini) all’Anfiteatro Flavio. Nel suo abbinamento concettuale con il Colosseo, monumento simbolo di quella generica e convenzionale romanità cui faceva riferimento il fascismo, il “Colosseo Quadrato” è stato immaginato come monumento simbolico della progettata esposizione internazionale. Perché finalizzato a rendere fisicamente evidente l’ideologico filo conduttore dell’intero impianto espositivo: le radici di quella “civiltà italiana”. La tesi politico-culturale che Bottai voleva tradurre in evento espositivo, era infatti proporre al contesto internazionale tale “civiltà” come base fondante e legittimante dell’ideologia fascista. Va peraltro osservato che, sempre in vista di questi intenti ideologici, la caratterizzante scelta adottata da La Padula e dagli altri suoi collaboratori, non era un atto progettuale di assoluta novità. Già qualche anno prima dell’avvio dei lavori per l’Esposizione romana, la soluzione di un edificio i cui fronti di facciata sono costituiti da serie sovrapposte di archi, era infatti già stata adottata (anche se non certo in modo così sistematicamente evidente come nel caso romano) da Portaluppi, Muzio ed altri, e cioè da esponenti del “Novecento” nelle testate dei due corpi dell’Arengario di Milano proiettati sulla piazza del Duomo. Si deve tuttavia sottolineare che nella soluzione architettonica del “Colosseo Quadrato” (l’edificio si innalza, ulteriormente emergendo dal contesto paesistico dell’E42, da un’alta piattaforma raggiungibile da scalinate), le indicate componenti simboliche risultano fortemente ed insistentemente enfatizzate, molto più di quanto non accada nell’Arengario milanese, dal ricorrere di una medesima scritta (tratta dal lessico mussoliniano) su ciascuna facciata, nonché dalla sequenza di statue marmoree (i riferimenti sono alla scultura più di età severa che periclea) costituenti, nel loro insieme, un intero ciclo di figure impersonanti concetti altrettanto retoricamente simbolici. È facile capire la ragione di tutto questo. Come detto il concetto di Civiltà Italiana costituiva il filo conduttore, ideologico e correlatamente morfologico, dell’E42, e l’edificio di La Padula era stato appunto concepito per essere, ad un tempo, sia strumento di diffusione di tale concetto, sia contenitore espositivo delle sue tangibili testimonianze. Ciò porta a concludere che il “Colosseo Quadrato” di La Padula vada dunque considerato un emblematico ed importante episodio dei nuovi approdi retorici delle componenti del Razionalismo e della “diversa modernità”. Dunque unificante qualità la cui percepita essenza spiega il persistente interesse di immagine mediatica (utilizzata tanto in chiave filmica quanto in quella prettamente pubblicitaria) che l’edificio continua tutt’oggi a suscitare.
Tuttavia nel complesso dell’E42, tale “diversa modernità” trova anche altri esiti in un più “tradizionalistico” esempio. Mi riferisco alla chiesa dei SS. Pietro e Paolo di Arnaldo Foschini. Anch’essa, come il Colosseo Quadrato, emergenza visi- va nel contesto paesistico ed ambientale di riferimento: sorge infatti sopra un piccolo rilievo collinare situato ai margini del complesso urbanistico-edilizio. Ma, in questo caso, tale emergenza risulta estranea all’enfasi retorica che informa l’insieme. Impostata sul tema tradizionale di una pianta centrale coperta a cupola, sembra rinchiudersi entro i suoi sobri volumi altrettanto sobriamente aggettivati: un edificio indifferente al chiasso mediatico degli spazi e degli edifici circostanti. Emerge qui, cioè l’equilibrata, ed in sostanza agnostica, caratteristica del fare di Foschini. Riscontrabile, del resto, non soltanto nelle sue opere architettoniche, ma anche, e più in generale, nei molteplici versanti della sua prassi professionale ed universitaria. Mi siano consentite, a tale proposito, alcune brevi notazioni. Nell’ambito del ruolo direzionale da lui poi avuto (con la collaborazione di Libera) nel programma Ina-Casa, e proprio per la sua sfuggente e felpata capacità di mediare, Foschini veniva definito (così detto da Renato Bonelli, anche lui partecipe di quel programma) il “cardinal Foschini”. Di ciò si ha infatti la prova nell’accettata variabilità delle scelte attuative del programma (la progetta- zione di “quartieri” abitativi per ceti medio-popolari) che emerge dalla vasta documentazione disponibile in materia. Ed anche nel suo ruolo di docente di progettazione, e poi di preside della Facoltà di Architettura di Roma (della sua attività in entrambi i ruoli ho un personale ricordo), seguiva lo stesso criterio. In quanto docente, la linea didattica del suo corso era sostanzialmente agnostica: i suoi assistenti appartenevano sia al contesto “moderno”, sia a quello “tradizionalistico”. In quanto preside, a fronte della più rassicurante e dominante presenza dei docenti più anziani (molti di loro attivi fin dalla fase fondativa), ha anche prudenzialmente favorito l’immissione di docenti delle generazioni più giovani: ancora una volta con attento (ma sostanzialmente agnostico) equilibrio tra quelli della linea “tradizionalistica” (peraltro favoriti) e quelli della linea “moderna”.
La scuola di architettura di Roma
Ho già accennato al complicato intreccio che sottostava al dibattito che si svolgeva in Italia, a partire dagli ultimi de- cenni del XIX secolo relativamente alla necessità, o meno, di dar luogo ad un autonomo processo formativo della figura dell’architetto e dunque ad un altrettanto distinto ambito professionale: con tutto ciò che ne conseguiva sul piano legislativo-istituzionale, accademico, e così via. Ne è infatti visibilissima traccia il lungo e tormentato iter dell’istituzio- ne di un autonomo Ordine degli architetti. Ho anche già fatto cenno al ruolo che, quanto alla formazione universitaria degli architetti italiani, ha avuto Gustavo Giovannoni nel dar vita alla Scuola Superiore di Architettura (e poi Facoltà universitaria) di Roma che in rapida successione cronologica, e qui mi riferisco agli anni Venti-Trenta dello scorso XX secolo, ha poi aperto la strada ad altre analoghe istituzioni accademiche italiane. Intento di Giovannoni, come detto, era pervenire a formare, sulla scia di quanto aveva indicato Vitruvio, un “architetto integrale”. Una figura la cui formazione culturale e professionale risultasse da un combinatorio e pluridisciplinare insieme di conoscenze teoriche. Dell’ottica e della “visione”. Della matematica. Della geometria e correlate leggi proporzionali. Delle arti figurative. Di ciò che oggi si definisce “contesto ambientale”. Di natura “ingegneristica” (statica, scienza delle costruzioni, ecc.). Delle caratteristiche dei materiali da costruzione e delle varie modalità della loro utilizzazione cantieristica. E così via. Il tutto tenendo anche conto della “storia” del costruire la cui pregnanza formativa, pur se in sottofondo e no dunque in modo sistematico, risulta ancora una volta presente nel trattato vitruviano.
Fino ai decenni antecedenti alla prima guerra mondiale, il dibattito sulla figura e formazione dell’architetto si era svolto, in Italia, lungo tre distinte linee. Una prima, quella degli ingegneri, guardava alla progettualità architettonica privilegiandone la componente tecnica: sulla scia, sostanzialmente pragmatica, della trattatistica francese ottocentesca e delle correlate scuole a finalità professionale ed applicativa. Di cui, come già avevano sostenuto i soci del’AACAR, era componente essenziale l’ambito del restauro architettonico. Una seconda, quella che trovava sostegno nelle Accademie di Belle Arti, privilegiava invece la componente “artistica” del fare architettura: in ciò, dunque, allineandosi alla tradizione della trattatistica italiana quattro-cinquecentesca e dei secoli successivi che considerava l’architettura una delle tre arti del disegno. La terza, quella prescelta da Giovannoni, che era un ulteriore sviluppo dei principi che dal XIX secolo venivano sostenuti dall’ambiente milanese (in particolare da Boito), proponeva che la formazione dell’architetto dovesse essere il punto di arrivo di un articolato convergere di più conoscenze disciplinari: tecniche, artistico-stilistiche, storico- architettoniche. Anche professionalmente mirate ad interventi restaurativi guidati dalle acquisizioni cognitive che, caso per caso, sarebbero emerse dal contatto diretto con la materialità del monumento studiato anche indagato con le strumentalità del rilievo. Ed i cui esiti, coerentemente con tale assunto, dovevano essere finalizzati ad evidenziare non soltanto i valori metrici e linguistici dei singoli edifici oggetto dell’indagine conoscitiva, ma anche le tecniche costruttive ed i correlati materiali impiegati nella costruzione (distinguendo tra fase originaria e fasi successive). Ed è questa la ragione per la quale il restauro degli edifici storici è poi divenuto attività specifica degli architetti (oggi però il rilievo si avvale anche di indagini che comportano più diversificate e sofisticate specializzazioni professionali).
Interessa così constatare che a questa sua posizione Giovannoni era pervenuto dopo l’aspro e definitivo distacco da Adolfo Venturi (uno storico dell’arte i cui apporti storiografici sono tuttora significativi e del quale era stato diretto allievo). E che inoltre, malgrado talune affinità e parallelismi, questa sua posizione risultava di fatto in contrasto anche con il pensiero di Benedetto Croce: la difficoltà concettuale, cioè, di far rientrare l’architettura entro la categoria dell’arte considerato che ne è ineliminabile, anzi intrinsecamente necessaria, la componente pragmatica, tecnica ed utilitaristica. Ma Croce, nel suo ruolo di ministro dell’istruzione (1921), e sia pure per ragioni del tutto diverse da quelle di Giovannoni (le rette parallele seguono traiettorie unificabili soltanto all’infinito), ha poi sostenuto che occorreva distinguere l’Ordine professionale degli architetti da quello degli ingegneri proprio perché le componenti artistiche erano necessariamente presenti nel fare dell’architetto ed invece molto meno, o per niente, necessarie al fare dell’ingegnere. Ed è forse in linea con questa stessa valutazione teorica il fatto che Croce abbia emanato la legge che istituiva gli Istituti Superiori per le Industrie Artistiche (echeggianti sia le ricordate tedesche Kunstgewerbeschulen sia altre analoghe scuole di arti e mestieri austriache, inglesi e scozzesi e di altri Paesi europei) e che poi Giovanni Gentile, come già detto, abbia istituito i licei artistici. Si deve infatti proprio a questo non ben chiaramente distinto contesto culturale e legislativo il configurarsi del quadro didattico, in sostanza pragmaticamente compromissorio, che connota la fase fondativa (e taluni suoi ulteriori sviluppi) della Scuola Superiore di Architettura di Roma. Valgano alcuni esempi relativi ad ambiti disciplinari le cui titolarità vivranno a lungo: verranno mutate soltanto molti anni più tardi (in pratica dopo gli anni Cinquanta). Quello della base formativa storica i cui corsi erano combinatoriamente denominati di “Storia dell’arte e storia e stili dell’architettura” e quello del successivo corso di approfondimento (un preludio al restauro) intitolato “Caratteri stilistici e costruttivi dei monumenti”. Quello di “Restauro dei monumenti” caratterizzato dalle preliminari indagini conoscitive più sopra ricorda- te. Quello dell’ambito urbanistico (fino a quegli anni campo disciplinare gelosamente occupato dagli ingegneri perché interpretato come esito della cultura tecnicistica dei primi anni del XIX secolo), cui era dedicato il corso altrettanto combinatoriamente definito “Urbanistica ed Arte dei giardini” finalizzato ad una progettualità architettonico-edilizia. Quello del disegno, di durata biennale, affidato ai corsi di “disegno dal vero” indirizzati tanto a riprodurre modelli di elementi degli ordini architettonici o di altre parti del loro lessico, quanto, nel secondo anno, a riprodurre singoli contesti ambientali (piazze, edifici, e così via) con particolare attenzione alla Roma rinascimentale, post-rinascimentale, seicentesca (ma Borromini era ancora sospettato di “eresia” artistico-culturale) e del Neoclassicismo ottocentesco. Quello dell’ambito progettuale che iniziava con un corso di “Elementi di architettura e rilievo dei monumenti” e che poi si articolava diramandosi in corsi sempre più specificamente mirati alla formazione professionale. Vi erano comprese anche alcune iniziali ed innovative discipline (non presenti nei corsi delle Facoltà di ingegneria) destinate a fornire le nozioni relative all’attualità (i corsi di “Elementi costruttivi” e di “Caratteri distributivi degli edifici”) in linea con gli attuali sistemi costruttivi e con le ricerche tipologiche proprie del “funzionalismo”. A tutto ciò, come anche adesso, si aggiungevano, delineando un percorso formativo autonomo, le discipline tipiche della cultura ingegneristica (calcolo matematico, geometria e prospettiva scientifica, chimica, statica e scienza delle costruzioni, e così via) che svolgevano, però solo in forma ridotta, i programmi delle facoltà tecniche di riferimento.
Interessa inoltre guardare sinteticamente alla composizione del corpo accademico. Perché ciò consente di cogliere la originaria articolata formazione dei docenti e le loro interrelazioni tra attività professionale e didattica almeno così come essa emerge dalla puntuale documentazione (qui ora pubblicata) relativa agli architetti iscritti all’Ordine professionale di Roma. Dopo un primo anno di avvio, nel quale è presente anche Manfredo Manfredi (poi lascerà l’incarico), nei corsi più disciplinarmente formativi risultano presenti (con qualche differenza cronologica tra di loro) Giovannoni, Piacentini, Del Debbio, Marino, Foschini, Vincenzo Fasolo, De Renzi, Plinio Marconi, Calandra, Minnucci, Fausto Vagnetti, De Angelis D’Ossat, e così via. Il corpo docente si allargava però a comprendere anche esponenti delle leve più giovani loro riservando un ruolo nelle varie (allora esistenti) figure di “assistente”. Tra questi, per citarne alcuni, Moretti, Fiorini, La Padula: ma l’elenco è molto più lungo. Nella fase iniziale della Scuola Superiore di Architettura di Roma (ma in sostanza fino agli anni del secondo dopoguerra) era dunque rispecchiata la duplicità degli orientamenti del contesto professionale romano: essendo però riconosciuto all’indirizzo tradizionalistico (pur nelle sue varie articolazioni) il ruolo di principale coordinatore della formazione degli architetti. E non diversamente da quella di Roma si comporteranno, nella loro prima fase, anche le altre Scuole Superiori (poi Facoltà universitarie) italiane. È dunque evidente che anche sotto questo profilo Roma è stata un laboratorio sperimentale: alle cui vicende hanno comunque guardato (o con simpatia, o con sospetto, o con infastidito distacco critico) altri centri italiani.
Vittorio Franchetti Pardo