Per una riflessione profonda sulla città, intesa come agglomerato di identità e di connessioni, spesso molti differenti tra loro, non si può fare a meno di chi ha competenza tecnica sul tema, ovvero l’architetto. Questo emerge dal convegno “La forma di un’idea: la città contemporanea” organizzato dall’Ordine degli Architetti di Roma in collaborazione con il MAXXI. A confronto personalità che alla città, nelle sue diverse accezioni, hanno dedicato molto della propria esperienza professionale. Franco Purini, professore emerito dell’Università Sapienza di Roma, considera la conoscenza profonda dell’ambiente urbano come un’esperienza parziale, transitoria ed appassionante, citando Baudelaire. “Soprattutto in un’attualità in cui la dialettica vede la città fisica soccombere a quella virtuale, ritenuta essenza primaria più concreta”, precisa Purini. È la concezione opposta alla cultura del Novecento che ha lavorato per una città sicura, accogliente e che progressivamente si migliora in modo da consentire agli abitanti di soddisfare le proprie aspettative esistenziali. “Anche l’ambientalismo, parente dell’ecologia, nasce come critica alla città stessa e quindi da un atteggiamento anti-urbano. Bisogna placare i radicalismi della natura perché senza città non esistono entità come la società o l’umanità stessa”, continua Purini.
Sul ruolo dell’architetto e sulle sue responsabilità mette il punto Francesco Cellini, Presidente dell’Accademia San Luca: “L’urbanistica ignora questioni come la dimensione di un marciapiede e non si preoccupa della pavimentazione. Servono competenze professionali la cui percezione del valore si è persa quando l’immodestia degli architetti ha voluto scindere l’architettura dall’urbanistica negli anni ‘50”.
Per Cellini l’architetto è colui che sa codificare la città, ovvero quanto di più complesso si possa immaginare, senza per questo essere reazionario. Tutto a discapito dell’urbanistica che, ponendosi come disciplina autonoma, “ha assunto una funzione autoreferenziale incastrata nell’ansia di governare e pianificare”.
Concorda Purini che legge in questo meccanismo la nascita dell’attuale conformazione della Capitale: “Roma è composta dal 95% di periferie, alcune altamente storicizzate. L’elemento di coesione sociale, originariamente affidato alla progettazione, é di fatto rappresentato dalle oltre 300 parrocchie o centri sociali che funzionano come entità di aggregazione per i nuovi romani, ovvero gli immigrati”. Nostalgica la sua conclusione: “In questa totalità periferica, il centro storico è una scenografica concentrazione di monumenti a cui restano solo le facciate del 1600; Roma ormai é una città politica ridotta a centro commerciale, divorato dal consumismo”.
Cinica la posizione di Massimo Cacciari, professore emerito dell’Università Vita – Salute San Raffaele di Milano: “Impossibile adattare e modellare una città. Non puoi pianificare un linguaggio che verrà perché è imprevedibile. Chi avrebbe creduto con anticipo che dal latino sarebbe derivato l’italiano?”. Ne fa anche una questione filosofica: “Secondo la concezione aristotelica il bello è ciò che ha forma, che puoi abbracciare con uno sguardo – spiega – questa idea occidentale non riguarda la città contemporanea, di per sè incompiuta, insicura, in divenire. I flussi che animano l’ambiente urbano sono immateriali, ma ricordiamoci di avere un corpo fisico con cui fare i conti”.
Cacciari individua nell’essenza stessa della città un’insicurezza endemica ed imprescindibile, che gli architetti devono modellare e tradurre in forma, senza mascherarla o eluderla all’interno di un’epoca di un’accelerazione inaudita. “Il nuovo dovere dell’architetto è dare casa alla nostra inquietudine nell’ambito di una città – territorio, in cui ogni corpo è relativo e nessuno è di riferimento”.
Luca Ribichini, Presidente Commissione Cultura della Casa dell’Architettura OAR, pone la memoria come fondamento dell’ambiente urbano. “Non appartengo a quella cultura secondo cui la città deve durare 30-40 anni – spiega – la città è appartenenza e sentire collettivo”. Innegabile come la storia si sia fatta edilizia tanto da divenire urbis. Si pensi ai conflitti di potere nei secoli (temporale e spirituale per esempio) che nel tempo sono divenuti paesaggio nelle piazze dei nostri centri storici. Anzi è auspicabile che si mantenga la traccia del proprio passaggio come sottolinea Purini: “Io sono contrario alle smartcity. Smart è Mercurio e non Minerva; è efficienza, è città del consumo. Io sono per un tessuto urbano con intensità poetica e passaggio del testimone dal passato al futuro”.
Un panorama urbano non troppo felice quello descritto durante il convegno. Proprio per questo l’architetto deve riacquisire il ruolo di interprete del mondo con la sua sensibilità, per dare forma alle aspettative comuni. “Con responsabilità – esorta Cellini – partecipiamo umilmente ai disastri delle nostre città. Con modestia e impegno”. Il mestiere dell’architetto come inno alla condivisione, contro la separatezza fisica di oggi, dilagante ed imperante secondo Cacciari, alla ricerca di costruire luoghi riconoscibili possibilmente per tutti, ma auspicabilmente per molti.
“Lo scopo del progettare è quello di mediare tra l’originalità della propria personalità e la comprensione dei bisogni del maggior numero di persone possibile”, conclude Purini. (GV)
Redazione OAR