L’elemento spirituale come fattore fondamentale per il progetto di architettura, non solo per opere ad elevata carica simbolica – di matrice religiosa o celebrativa, come i memoriali – ma anche per edifici “laici”, per la vita quotidiana, che devono essere in grado di comunicare un messaggio immediatamente comprensibile alle persone. La spiritualità – al centro della terza giornata tematica di Spam – è componente fondamentale dell’approccio progettuale di Daniel Libeskind, il grande architetto polacco, naturalizzato statunitense, autore di interventi iconici in tutto il mondo, tra i più impressi nell’immaginario collettivo.
La lecture di Libeskind – che ha partecipato anche al “Caffè con…”, intervista in chiave informale con Massimiliano Tonelli – è stata al centro della giornata alla Casa dell’Architettura (piena in ogni ordine di posti), ma il programma pomeridiano ha riservato altri interessanti spunti con l’incontro a tre (Incontro 1 vs 1 + 1) tra Franco Purini, architetto e professore emerito, Valerio Paolo Mosco, architetto e critico di architettura, e Stefano Catucci, docente e filosofo: un confronto che ha gravitato in modo deciso intorno al presente e il futuro di Roma.
Libeskind: Il messaggio ‘spirituale’ degli edifici
“La parola spiritualità, per quanto mi riguarda, non si adatta solo agli edifici religiosi, ma si riferisce a opere laiche, civili. Credo fermamente che questi edifici debbano avere uno specifico messaggio spirituale. Quale? L’affermazione della vita anche in tempi oscuri. Per questo, oggi, ho deciso di condividere con voi alcuni dei miei progetti che più rispecchiano questo ragionamento”. Così Daniel Libeskind ha aperto la sua lecture alla Casa dell’Architettura, dando il via a una carrellata di progetti – raccontati anche attraverso aneddoti che hanno spiegato, spesso in modo sorprendente, alcune delle scelte progettuali – in grado di emozionare il pubblico in sala. Dal Jewish Museum di Berlino al Museo di Storia Militare a Dresda, dal Contemporary Jewish Museum di San Francisco, allo Zlota 44 – grattacielo residenziale a Varsavia, edificato di fronte al Palac Kultury fatto costruire da Stalin nel 1955 – fino al Kurdistan Museum a Erbil, in Iraq, e al concorso per Ground Zero a New York.
“Progettare edifici utili è la sfida per gli architetti – ha spiegato Libeskind -. Fare architettura low cost, innovativa, utilizzando buoni materiali, sostenibile nel tempo e che migliori la vita delle persone. Oggi si parla tanto, a ragione, di emergenza climatica globale, ma un grande problema per le città del futuro è sempre di più la disuguaglianza”. Tradotto, in un paradosso: se le case sono ecologiche ma nessuno ha le risorse per comprarle, la situazione resta invariata. “La sfida per le nuove generazioni di progettisti – sottolinea allora l’architetto – è di ridurre il gap, far investire in modo diverso, cambiare l’ordine delle cose affinché persone ‘normali’ possano sostenere economicamente il vivere in città. Oggi chi lavora nei grandi centri urbani deve, sempre più di frequente, risiedere fuori e spostarsi, ogni giorno, per raggiungere il posto di lavoro. Di questo passo, le città diventeranno desertificate. A volte, invece, basta poco per spingere le persone a tornare a vivere nei contesti urbani. La vision per il futuro, quindi, è anche trasformare l’approccio adottato dagli architetti”.
Libeskind ha parlato, fuori dagli schemi, del suo rapporto speciale con le città di New York, Berlino e Milano, del ruolo fondamentale di sua moglie, Nina, nella scelta di diventare architetto, e della principale fonte di ispirazione del suo lavoro (“Il mondo è un posto meraviglioso, è questa la mia ispirazione”, ha detto). L’architetto ha apprezzato l’installazione nel giardino della Casa dell’Architettura, il Bauhaus Think-Tank di Guido Iannuzzi (Alt Guiz) svelato in occasione dell’inaugurazione di Spam: “Mi piace il carro armato fuori – ha detto Libeskind . La mia formazione è anche legata alla Bahuaus. C’era la propensione verso la vita sociale”. Infine, una parentesi dedicata a Roma: “Ho provato più volte a lavorare a Roma, ho parlato con quattro sindaci diversi, ma non è mai successo niente. Purtroppo, qui, è spesso tutto troppo orientato al passato. Invece Roma ha carte in regola e persone capaci per essere città del futuro”.
Purini: Il gap di Roma sulle architetture contemporanee
Uno spunto, quello lanciato dall’architetto polacco-statunitense sulla Capitale – che è stato idealmente colto nel dibattito che ha caratterizzato l’incontro 1 vs 1 + 1 tra Purini, Catucci e Mosco.
Oggi, “assistiamo al cosiddetto ‘turismo del nuovo’, masse di persone che si muovono per visitare le città, non per il patrimonio storico che possiedono, ma per vedere le nuove architetture, vivere una esperienza di futuro nel presente – ha osservato Purini -. Accade a Parigi come a Shangai. A Roma, invece, manca una dimensione di architettura contemporanea in grado di accostarsi minimamente al patrimonio unico al mondo che la città possiede. Basti pensare ai dieci anni di esitazioni sullo stadio, alle torri Libeskind cancellate dai programmi. Servirebbe, invece, fare opere che diano a Roma anche un volto moderno. Roma ha cambiato faccia tante volte nella storia. Le trasformazioni sono importanti”.
Ma come dovrebbe essere la città del futuro? “Una città – prosegue il professore emerito della Sapienza – in cui dovrebbe riscoprirsi l’importanza essenziale per la vita dello spazio pubblico, oggi diventato appendice del consumo, invece che essere luogo in cui individualità e comunità si incontrano e si definiscono l’una attraverso l’altra”. Agli architetti, invece, spetta il compito di “farsi capire: dobbiamo essere noi stessi, con la nostra architettura, ma questa deve essere compresa dal maggior numero possibile di persone”.
Catucci: Ricercare una linea di condivisione
La parola al filosofo Franco Catucci, che ha rimarcato come “l’architettura debba saper trovare una linea di condivisione di fronte alla frammentazione dei linguaggi attuali: occorre fare uno sforzo che mostri come gli architetti sappiano anticipare, e non solo interpretare, quello che una città come Roma dovrà diventare. Bisogna trovare la capacità di esprimere una condivisione pubblica che riguardi il futuro della città”. Un tema fondamentale, ha continuato, “riguarda la periferia, non solo di Roma: è quello dell’abbandono, della solitudine, della distanza che diventa esclusione. Non è solo effetto collaterale di una città cresciuta in modo disordinato, ma prodotto specifico di un meccanismo di governo che si è innescato nel tempo: occorre un cambio innanzitutto culturale in cui l’architettura ritrovi il suo ruolo”.
Mosco: Cambiare marcia. Senza il nuovo, il vecchio muore
Non si possono risolvere tutti i problemi, “dobbiamo affrontare quelli che ci competono e il primo è un atteggiamento culturale poco sensibile all’architettura”. A dirlo è Valerio Paolo Mosco, che senza mezzi termini aggiunge: “A mio avviso a Roma si è fatta strada una sottocultura urbanistica, politica, sociologica”. Bisogna essere consapevoli, ha continuato, “che abbiamo bisogno del nuovo. Perché senza il nuovo, il vecchio muore. E’ possibile fare degli ‘atolli’ di formalmente compiuto, che ci consegnerebbero una città identificabile nella sua pluralità. Espansioni che, al di là dell’urbanistica, stiano dentro il progetto architettonico. Occorre fare dei pezzi di città formalmente compiuti. E’ necessario innanzitutto capire la scala della città, che è scala medio piccola”. Il compito degli architetti, secondo Mosco, “è fare cose belle. C’è la capacità di farle? La mancanza di gusto che ha segnato troppe scelte di questa città è stata drammatica. Roma deve ritrovare il suo stile”. (FN)
Redazione OAR