Ripercorrendo alcuni dei suoi progetti, Daniel Libeskind mette in evidenza il significato che il termine spiritualità può assumere nella concezione e costruzione dello spazio architettonico; una declinazione che poco o nulla ha a che vedere con la produzione di edifici religiosi, ma che il noto architetto rintraccia e ripropone in spazi laici, custodi di un messaggio altro dalla sacralità del culto e attinente invece al terreno eppure mistico sentire comune a ogni uomo, a prescindere dalla sua propensione, credente o laica che sia.
Spiritualità per Libeskind significa affermazione della vita. Un concetto che permea gli spazi vibranti dei suoi edifici, capaci, al di là di ogni personale opinione e gusto, di parlare universalmente la lingua essenziale e intuitiva della percezione sensoriale, dell’impressione emotiva, svincolata da preconcetti, da sovrastrutture teoriche o da solide certezze intellettive.
Il racconto degli edifici tralascia il loro ruolo funzionale, le qualità in termini di regole e accorgimenti della costruzione, di capacità prestazionali e di utilizzo, per soffermarsi invece sul concetto di estetica, intesa come significato dello spazio percepito attraverso la mediazione dei sensi e non della conoscenza.
Gli edifici sono manifesto parlante, trascrizione simbolica della forza vitale dell’animo umano, anche e soprattutto di fronte alle avversità e agli orrori che s’imprimono nella coscienza, segnando l’esistenza privata dei singoli o la storia collettiva di tutti.
Il concetto -potremmo quasi dire lo strumento- della spiritualità, oltrepassa i confini della collocazione geografica, della destinazione d’uso, dell’espressività dei materiali e delle forme, elementi distintivi delle singole opere, per ricucire in una narrazione continua e coerente buona parte della produzione dell’architetto.
Aneddoti e ispirazioni personalissime sono rivelati per descrivere con esattezza le architetture, ne svelano il senso sotteso in maniera più efficace e incisiva di quanto saprebbe fare un’analisi condotta attraverso gli strumenti e le categorie della disciplina. Come in una sorta di simbolismo, stavolta sì, di sapore pienamente religioso, volumi, assenze, sagome, percorsi, materiali, luci e ombre, compongono un sistema di corrispondenze riconoscibile, intuibile ma non esplicito, in grado di soddisfare l’esigenza espressiva.
La scomposizione dei volumi nel Felix Nussbaum Museum di Osnabrück (1994-1998), dove una violenta collisione tra corpi realizza un microcosmo stridente ma abitabile, simboleggia testualmente la tormentata vita del pittore nel momento più drammatico di disgregazione delle certezze e privazione della libertà. L’artista, con la sua produzione pittorica, ha lasciato traccia di una storia personale e al contempo universale; l’edificio, allo stesso modo, ripercorre quella storia tramite il violento scontro dei tre corpi che lo compongono.
Il museo ebraico di Berlino (1989-1999), nato nella mente del progettista come conclusione dell’opera musicale Mosè e Aronne, lasciata incompiuta da Arnold Schoenberg, si prefigge di concludere il componimento attraverso il suono dei passi dei visitatori. Una costellazione di simboli riferiti a luoghi, avvenimenti, persone, produce una metafora spaziale capace di esprimere lo spirito, il significato profondo di ciò che viene narrato con i mezzi della costruzione, senza necessità che luoghi, avvenimenti, persone siano per forza noti o didascalicamente narrati ai visitatori. Buona parte dell’edificio di Berlino non contiene, pur essendo museo non espone, mette piuttosto in scena un vuoto; crea spazio per un’esperienza, privata e sociale, dove quanto accaduto può, in piccola misura, essere attraversato e vissuto e non solo osservato e ricordato.
Nel Museo della storia militare di Dresda (2001-2011), la triangolazione tra le aree bombardate della città alla fine della Seconda Guerra Mondiale si materializza in un corpo estraneo che irrompe drammaticamente nel fabbricato preesistente. Il nuovo volume rappresenta una cesura nella storia e, stravolgendo l’edificio originario, segnala una sospensione, un punto di arresto da cui può scaturire un nuovo avvio, una rinascita.
La torre residenziale di Varsavia (2017), che domina lo skyline urbano insieme e di fronte al Palazzo staliniano della Cultura e della Scienza, afferma che il centro della Polonia appartiene alle persone che lo abitano e non alle ideologie del passato; una bandiera che inneggia alla libertà del paese, soffertamente conquistata.
Il nuovo complesso realizzato sulle rovine del World Trade Center di New York (2003 – in corso) fa dei basamenti delle torri abbattute un segno di resistenza da esporre all’interno dei nuovi ambienti progettati. Gli spazi ipogei del museo e memoriale sono dominati dalla mastodontica presenza della diga di fondazione, responsabile di tenere all’asciutto la città, trattenendo la pressione del fiume Hudson. In superficie, nello spazio pubblico, l’acqua è invece elemento liberatorio, in grado di creare con il suo suono una condizione d’isolamento e individualità, per accordare ai passanti, immersi nella frenesia della città, un intervallo di memoria e raccoglimento.
Il Museum of Humankind (progetto), tra le colline della Rift Valley, in Kenya, segnalerà il luogo esatto in cui fu scoperto il primo scheletro completo di un uomo primitivo. Il progetto prende corpo attraverso il simbolismo di una pietra aguzza, arnese primordiale che racconta le origini della specie umana, evoluitasi grazie a qualcuno che ha costruito un oggetto appuntito per poter sopravvivere.
Le architetture percorse attraverso l’appassionato racconto di Libeskind non sono contenitori di attività da esse plasmati; tantomeno spazi per organizzare reperti, riordinare testimonianze, raccogliere informazioni. Sembrano invece scaturire, quasi come esigenza personale, dalla volontà di produrre e ri-produrre un’esperienza. Esperienza è conoscenza diretta, personalmente acquisita con l’osservazione, l’uso o la pratica di una determinata sfera della realtà.
Leila Bochiccio, Redazione AR Web