Supervoid è uno studio di architettura con sede a Roma.
È stato fondato nel 2016 da Benjamin Gallegos Gabilondo (Santiago CL, 1988) e Marco Provinciali (Roma, 1988) dopo essersi diplomati allo IUAV.
Supervoid ha realizzato progetti a varie scale in Italia, Cile e Stati Uniti, è stato selezionato per il Lisbon Triennale Millennium bcp Début Award 2019 e ha partecipato alla mostra e al simposio The State of the Art of Architecture alla Triennale di Milano nel 2020. Lo studio ha pubblicato progetti e saggi su riviste e pubblicazioni internazionali come SANROCCO, Elements of Venice, The Real Review e Vesper.
INTERVISTA
Federica Andreoni – FA
Supervoid
Benjamin Gallegos Gabilondo – BGG
Marco Provinciali – MP
ATTITUDINE DI PROGETTO
FA – Qual è l’approccio attraverso cui il vostro studio opera?
BGG – Sicuramente l’approccio prevalente, più che legato a certe tipologie di progetto o a certi programmi, è relazionato con l’operare in contesti in cui si trova un dato iniziale molto presente.
Questo è evidente sia nei progetti di ristrutturazioni che nei progetti di interni, che fino ad ora hanno costituito la maggior parte dei nostri progetti.
La nostra attitudine è più legata a questo, che a una questione tipologica.
MP – L’idea di una specializzazione non ci affascina particolarmente. Inoltre, va anche detto che i progetti si possono scegliere fino a certo punto. O meglio, si può scegliere di specializzarsi e noi abbiamo scelto di non farlo.
Chiaramente ci interessa lavorare sui concorsi perché sono delle occasioni per uno studio giovane di confrontarsi con delle scale, dei temi e degli incarichi pubblici cui altrimenti non si avrebbe accesso.
Non c’è una scelta programmatica su una certa tipologia di intervento, cerchiamo di cogliere tutte le occasioni per disegnare e per fare delle riflessioni spaziali, indipendentemente dalla scala, dalle funzioni o dalla tipologia di committenza. Abbiamo realizzato allestimenti, ristrutturazioni – ovviamente, sono i lavori tipici degli esordi – ma anche spazi a destinazione commerciale di diverso tipo: come la gioielleria Cochrane Store (Roma, 2018) o il negozio di generi alimentari e ortofrutta, Pizzicarola (Roma, 2022).
FA – C’è uno tra i vostri progetti che considerate esemplificativo o più espressivo di questo approccio?
BGG – Sicuramente l’Appartamento al Palazzo Doria Pamphilj (Roma, 2017). È uno dei nostri primi progetti, in cui abbiamo avuto la fortuna di relazionarci con un cliente particolarmente interessato e disponibile a sperimentare. Si tratta di una ristrutturazione in centro a Roma, dentro palazzo Doria Pamphilj. Ci si è presentata l’occasione di intervenire in un contesto storico molto caratterizzato, una situazione che in fin dei conti è molto comune ovunque in Italia o addirittura in Europa e che accomuna un po’ tutti i nostri progetti.
MP – In quel caso abbiamo cercato di stabilire un rapporto con la preesistenza, pur mantenendo una certa distanza da un punto di vista formale e linguistico rispetto al dato storico iniziale. Abbiamo costruito delle relazioni ma sempre rivendicando una certa autonomia, lavorando ad esempio sulla forma dello spazio più che sui materiali. Siamo partiti appunto dalla forma degli interni, disegnando uno spazio voltato che dialoga con il palazzo barocco che lo accoglie, al tempo stesso però lasciandolo estremamente asciutto, astratto e che assomiglia quasi al calco in gesso della volumetria interna.
LA PROFESSIONE DI ARCHITETTO A ROMA
FA – Come è per voi lavorare a Roma?
MP – Una delle difficoltà principali che riscontriamo nel contesto dell’esercizio della professione a Roma, è quella della mancanza di interesse verso un certo tipo di architettura, che al contrario in Nord-Europa è molto più parte della cultura, sia da parte dell’amministrazione pubblica che dai privati.
In Italia si è rimasti un po’ indietro o meglio slegati da alcuni discorsi; nello specifico a Roma si è perso un certo modo di essere aggiornati o allineati con le discussioni internazionali.
È molto carente la cultura del progetto. È sufficiente pensare a come il progetto urbano e dello spazio pubblico sia del tutto assente dal dibattito politico. A Roma ci sono problemi basilari, strutturali ed elementari, che catalizzano il dibattito quando invece non dovrebbero nemmeno esserne parte.
Questo è vero però anche a Milano dove, nonostante si sia costruito certamente molto e dove apparentemente c’è un’attenzione allo sviluppo urbano, l’amministrazione ha svolto in modo molto parziale un ruolo di guida in questo processo. E se questo è vero per quanto riguarda la committenza pubblica, immaginiamoci la committenza privata, la quale dipende sempre e solo esclusivamente all’interesse del singolo.
BGG – In questo senso, siamo in attesa di capire cosa genererà questa stagione dei concorsi che a Roma, ma in generale in Italia, si sta svolgendo negli ultimissimi anni. L’impatto che avrebbe la buona riuscita delle realizzazioni dei tanti concorsi indetti, delle scuole e dei centri culturali soprattutto, sarebbe notevole e potrebbe determinare un cambio di rotta decisamente interessante.
Il concorso è uno strumento che la generazione precedente alla nostra non ha avuto a disposizione.
MP – Sì, va detto infatti che negli ultimi anni abbiamo avuto la possibilità di accedere ai concorsi con una facilità molto maggiore rispetto a quanto avvenisse prima.
CONCORSI
FA – Come molti studi della vostra generazione, considerate quindi il concorso uno strumento valido attraverso cui a praticare la professione?
BGG – Sì, certo, nonostante ci siano comunque delle difficoltà. Una tra queste è determinata dalle tempistiche che vengono date alle fasi di progettazione, che spesso sono eccessivamente ristrette. Se consideriamo che il concorso è lo strumento più democratico per realizzare edifici pubblici, contrarre i tempi di progettazione è controverso.
MP – Nei concorsi in due fasi solitamente la consegna viene fissata a due mesi dalla pubblicazione, che rende evidentemente difficoltosa la programmazione del lavoro all’interno dello studio. O si ha una struttura tale che permette di essere sempre pronti con una squadra dedicata ai concorsi, oppure, come nel nostro caso, intraprendere l’investimento di presentare una proposta ad un concorso è un impegno che va programmato, compatibilmente con il resto dei lavori, e non può essere improvvisato.
BGG – Inoltre è problematico quanto a fronte di questa esiguità di tempo messo a disposizione dei partecipanti, le fasi amministrative, di pubblicazione dei risultati o di valutazione o degli affidamenti successivi, sono invece lunghissime. C’è un problema di fondo, che abbiamo riscontrato in tutte le occasioni in cui ci siamo confrontati con lo strumento dei concorsi.
Un aspetto che abbiamo sperimentato recentemente è la possibilità di partecipare a concorsi collaborando con altri studi, e svolgendo la collaborazione tutta digitalmente attraverso riunioni online. Questo ci ha permesso di formare delle squadre di lavoro con componenti che si trovano fisicamente in città o addirittura paesi differenti. È una forma di produzione progettuale che prima era impensabile, e che per uno studio come il nostro è particolarmente interessante.
MP – I concorsi hanno necessariamente un carattere speculativo e di ricerca, sono occasioni di sperimentazione e per questo le collaborazioni sono particolarmente fertili e ricche.
Abbiamo notato che purtroppo in diversi casi non emergono i migliori progetti, come in alcuni degli ultimi promossi a Roma.
BGG – Spesso stupisce la poca qualità delle proposte. È evidente che la facilità di accesso ai concorsi produce, tra gli effetti collaterali, anche l’ampliamento del bacino delle proposte.
MP – In questo senso andrebbe comunque tenuto a mente che il concorso aperto, in due fasi, non è l’unico modo per indire un concorso di progettazione. All’estero è molto utilizzata anche la modalità di accesso per invito o per curriculum, che inevitabilmente impone all’amministrazione pubblica una scelta a priori e dunque una responsabilità maggiore.
FA – Quale è stata una esperienza significativa per lo studio in ambito concorsuale?
BGG – Abbiamo partecipato al concorso indetto da Roma Capitale per il Nuovo centro culturale Tor Marancia (Roma, 2021) e lo abbiamo fatto insieme ad uno studio cileno, “Amunátegui Valdés” che a sua volta ha due sedi, una a Santiago del Cile e l’altra a Los Angeles. Il fuso orario totale era di undici ore!
Ciò che è risultato particolarmente interessante in questa collaborazione è stato il confronto tra il nostro approccio e il loro. Da parte nostra immaginavamo un edificio che, nonostante rispettasse una serie di principi di insediamento nel lotto, cercava comunque di distaccarsi linguisticamente dal contesto. Al contrario invece la loro tendenza era quella di voler stabilire un rapporto molto più diretto con la preesistenza circostante, più vincolato sia da un punto di vista formale che di materiali al contesto. Era evidente che la minore consuetudine, se vogliamo, di trovarsi di fronte a contesti così caratterizzati come sono quelli storicizzati, li spingesse ad una maggiore riverenza.
Queste sono le dinamiche su cui ci interessa riflettere, per ragionare sul contesto in cui lavoriamo e su quanto in qualche modo influenzi la nostra attitudine di progetto.
CONTAMINAZIONI
FA – Come le collaborazioni con altri studi o con altri professionisti si inseriscono nel vostro modo di lavorare?
MP – Cerchiamo di portare avanti collaborazioni con altri studi, quando possibile. Abbiamo sviluppato per esempio diversi concorsi insieme a “Ganko”, uno studio di amici e colleghi di Milano.
FA – E per quanto riguarda le collaborazioni con altri campi disciplinari?
MP – Potremmo menzionare un progetto che si chiama EUPavilion. Si tratta di una mostra di progetti per un ipotetico padiglione Europeo alla Biennale di Venezia. Abbiamo invitato a presentare un progetto diverse realtà in modo da coprire uno spettro ampio tra l’architettura e l’arte, quindi coinvolgendo architetti che si collocano in un ambito professionale strettamente disciplinare, architetti che si muovono a cavallo tra le discipline e artisti propriamente plastici. Abbiamo chiesto loro di disegnare e produrre un modello per il padiglione. Il risultato è composto da otto progetti sviluppati da otto progettisti (Armature Globale, BB con Tomaso De Luca, Jasmina Cibic, Diogo Passarinho Studio, Plan Común, Something Fantastic, TEN, Evita Vasiljeva) architetti o artisti della nostra generazione e che quindi come noi sono cresciuti e si sono formati nel contesto dell’Europa unificata.
Consideriamo fondamentale questo tipo di approccio di contaminazione, e cerchiamo in qualche modo di recuperarlo. Certamente non è un approccio che ci è stato insegnato, né che in campo nazionale è stato molto coltivato negli ultimi anni, e proprio per questo ci interessa. Contaminazione che è poi entrata in gioco anche quando abbiamo dovuto affrontare la rappresentazione dei modelli dei progetti del padiglione, per la quale ci siamo rivolti a dei videomaker. Abbiamo lavorato sia sulla progettazione dello spazio che sulla sua rappresentazione, cercando di evitare i metodi canonici della rappresentazione architettonica in modo da poter abbracciare un pubblico più ampio.
BGG – Il tentativo era quello di fare una mostra di architettura che fosse accessibile utilizzando un linguaggio non propriamente disciplinare, che fosse aperta a diverse letture e che nella sua mancanza di definizione lasciasse in qualche modo un margine di fertile ambiguità.
FA – Come è nato questo progetto?
MP – Il progetto è nato da una considerazione molto semplice: non esiste un padiglione europeo alla Biennale di Venezia. Allo stesso tempo, però, la Biennale è un luogo dove fin dalla sua nascita si è manifestata molto chiaramente l’evoluzione storica e geo-politica dei paesi e dei i loro rapporti. Ci sembrava per questo fosse il luogo ideale per mettere in discussione il formato del “padiglione nazionale”, poiché soprattutto oggi è paradossale anche solo pensare che la produzione culturale abbia caratteristiche nazionali. Inoltre abbiamo considerato che fosse necessario ed interessante riprendere le fila di un discorso sull’immagine dell’Unione Europea, iniziata nei primi del 2000 e poi interrotto; e che fosse necessario ed interessante farlo in quanto architetti, nella convinzione che lo spazio abbia una centralità nella definizione di una identità collettiva.
La mostra è online attualmente. I video sono di No text Azienda, mentre la colonna sonora è di Paolo Forchetti.
Abbiamo cercato di lavorare sulla rappresentazione, che è uno degli aspetti più standardizzati dell’architettura: c’è una modalità, il fotorealismo, che viene non solo unanimemente accettata ma anche in qualche modo considerata neutrale, quando in realtà non lo è. Volevamo mettere in discussione questa abitudine, utilizzando delle scansioni 3D ed altri media, facendolo in modo sperimentale e a tratti senza avere – volutamente – il controllo totale.
BGG – Si, era una lettura di questi modelli fatta da videomaker, come una sorta di traduzione da un media all’altro.
MP – La mostra è pensata per avere esiti in diversi formati: abbiamo organizzato un evento alla galleria “Mega” a Milano, in cui in video sono stati proiettati; la mostra è esposta online attualmente; è prevista una pubblicazione cartacea e senz’altro rimane anche l’intenzione di esporre fisicamente, nello spazio, i modelli.
NEXT – IL PROSSIMO PASSO
FA – Cercando di guardare al prossimo futuro, quali sono i vostri progetti?
BGG – Il 2022 sarà per noi un anno di transizione dei progetti. In particolare è prevista la fine dei lavori e l’apertura del Borgo La Mistica (Roma, 2016-2022) una riqualificazione di un borgo agricolo, un frammento di agro romano inglobato in un’area urbana all’interno del GRA. È uno dei nostri primi progetti, ed è anche uno dei motivi per cui lo studio si è aperto con base a Roma.
MP – Si tratta di un progetto che riutilizza attraverso nuove funzioni gli spazi originali di questo complesso – che contiene porzioni quasi intatti di campagna romana, resti archeologici, edifici tradizionali – localizzato in un contesto paesaggistico di grande rilievo ma anche al centro di grandi trasformazioni.
BGG – È un progetto nato da una serie di ragionamenti su come attraverso alcuni macro-gesti possa tenere assieme paesaggi molto diversi, alcuni specificatamente romani, e che evidenzia anche le loro contraddizioni e la sua complessità, mettendole a sistema.
MP – Nel prossimo futuro saremo piuttosto impegnati in un progetto di una ristrutturazione di una residenza nel Sud della Francia, in un contesto alpino, stimolante in quanto diverso da quelli in cui abbiamo operato finora.
In generale abbiamo in questi anni di vita dello studio impostato un modo di lavoro per cui tendenzialmente i nostri auspici si concentrano sul proseguire e potenziare le direzioni che abbiamo tracciato: continuare a cogliere tutti i progetti come occasioni di ragionamento, insistere con i concorsi e strutturare la sinergia tra la dimensione di ricerca e quella progettuale, in modo coerente all’interno dello studio.
Intervista di Federica Andreoni, Redazione AR Web