Intervista
14 Marzo 2025

Intervista a Elizabeth Diller

di Claudia Ricciardi (Architetto e Consigliere OAR) e Giulia Villani (Architetto, Coordinatrice Redazione OAR)
Testo di Francesco Nariello, Redazione OAR

Nell’epoca dell’incertezza e di cambiamenti accelerati, l’architettura non può essere un’entità rigida e immutabile, ma deve essere capace di adattarsi e trasformarsi. È questo uno dei messaggi che emergono dalle riflessioni di Elizabeth Diller, figura tra le più influenti dell’architettura contemporanea, cofondatrice dello studio newyorkese Diller Scofidio + Renfro (che recentemente ha visto la scomparsa, a 89 anni, del cofondatore Ricardo Scofidio). A Roma in occasione della mostra “Architettura instabile” (curatela e progetto d allestimento di DS+R), in corso al Museo nazionale delle Arti del XXI secolo (MAXXI), l’architetta statunitense ha concesso una video intervista allOrdine degli Architetti PPC di Roma e provincia sui temi dell’esposizione e che contraddistinguono il suo approccio alla progettazione, spaziando da una visione sul futuro dell’architettura, e non solo, allo sguardo sulle città – tra le radici del passato e le prospettive di sviluppo -, fino al ruolo dellarchitetto come attore politico nelle trasformazioni urbane.

Nel dialogo con la consigliera OAR, Claudia Ricciardi, Diller riflette, tra l’altro, su un concetto chiave: larchitettura – per restare rilevante – deve sapersi trasformare, in termini di adattabilità e resilienza. Un edificio «che si piega al vento invece di contrastarlo», strutture che si adattano alle necessità della città e delle persone, opere capaci di «restare vive»: è questa la visione che emerge dalle parole dell’architetta statunitense e che guida i progetti realizzati dallo studio DS+R, come The Shed, ma anche l’iconica High Line o il rinnovamento del Lincoln Center, solo per restare a New York.

Nella sua interazione con la città e la comunità che la abita, l’architettura non è neutra: è politica e sociale. Diller offre il suo punto di vista anche sul futuro di Roma, propone un equilibrio tra tutela del patrimonio storico e nuove progettualità, senza lasciare che la città si cristallizzi in un museo a cielo aperto. Ecco la sua intervista completa.

Qui il video integrale dell’intervista con Elizabeth Diller

Claudia Ricciardi (OAR): Architetture mobili e adattabili: qual è il filo conduttore, il principale significato di “instabilità” che i progetti selezionati per la mostra perseguono? Ed è possibile trasporre tale idea in contesti economici, sociali o geopolitici?

Elizabeth Diller: Forse riconsidererei il termine “instabilità”. In realtà, non si tratta di instabilità, ma di mobilità, adattabilità, operabilità e ecodinamismo. L’idea alla base del progetto è che l’architettura, che normalmente consideriamo stabile e radicata al suolo, sia in realtà più vulnerabile quando è statica. Se invece possiamo concepire unarchitettura capace di trasformarsi, di spostarsi per evitare i pericoli, di adattarsi allambiente e di essere viva, allora ha una possibilità di resistere all’obsolescenza e alla distruzione. In questo modo, di fatto, si prolunga la vita di un edificio.

C.R. : Quindi flessibilità e, in questo senso – forse – instabilità, come chiavi per relazionarsi al contesto stesso: quali strategie di interattività dovrebbe contemplare l’architettura, oltre al movimento stesso?

E.D. : È una domanda molto ampia su come costruiamo. Quando realizziamo edifici, essi sono costosi, richiedono molto tempo per essere concepiti ed eseguiti, e quando sono terminati, il programma per cui erano stati concepiti è già in qualche modo superato. Come possiamo progettare, dunque, per un futuro che non possiamo prevedere? Questa è una delle questioni centrali su cui si basa la mostra. Vogliamo che gli architetti riflettano su questo periodo di immenso cambiamento, che avviene più velocemente di quanto possiamo contemplare. Come può larchitettura concepire se stessa in modo da non diventare irrilevante? E come può aiutare a risolvere problemi invece di crearne di nuovi per le persone? Non vogliamo vedere le città in macerie, giusto? Ovviamente, non possiamo cambiare le azioni politiche che sono al di sopra di noi. Ma possiamo fare in modo che gli edifici diventino più resilienti. Dovrebbero essere meno simili a fortezze e più duttili, capaci di resistere ai cambiamenti. Questo vale anche per terremoti e inondazioni: gli edifici possono essere sopraelevati per evitare le alluvioni o piegarsi al vento invece di opporvisi. È un modo diverso di pensare alla stabilità “Vitruviana” e agli ideali tradizionali dell’architettura. La resilienza deriva dall’adattabilità, non dalla resistenza.

C.R. : In questo senso, sembra che in molti progetti ci sia unidea di apertura, la capacità di un edificio di accogliere modifiche nel tempo. Pensiamo, ad esempio, agli usi quotidiani: c’è sempre qualcosa che va oltre la funzione o lestetica. Questa dimensione aperta permette alle persone e ai visitatori di modificare e abitare quello spazio. Esiste un edificio che, dopo la sua realizzazione una base a tale principi, abbia cambiato la sua dimensione in un modo non previsto in fase di progettazione?

E.D. : Penso che la maggior parte degli edifici venga usata in modo diverso da come era stato previsto. Limprevedibilità è intrinseca allarchitettura. Per quanto riguarda la prima parte della domanda, il progetto in mostra, The Fun Palace di Cedric Price, ha ispirato molte riflessioni nel dopoguerra: un’architettura pensata come una struttura flessibile, con un sistema di componenti che possono essere cambiati, spostati o sostituiti. Questo ha influenzato il nostro progetto The Shed, che si basa su un’architettura infrastrutturale: offre protezione dalla pioggia, ha una struttura portante, un sistema di condizionamento ambientale, elettricità… tutto ciò di cui un edificio ha bisogno. Ma lo spazio non è rigidamente definito, pur non essendo generico. L’idea chiave è creare un’architettura distintiva, capace di assumere forme diverse, supportare produzioni e utilizzi diversi, ma mantenere sempre la sua identità, adattandosi senza essere un’immagine statica.

C.R. : Hai menzionato lobsolescenza degli edifici, che va oltre la fine della loro vita funzionale funzione e permette loro di essere aperti a diversi usi nel tempo. Il dialogo tra passato e presente o futuro, tra patrimonio storico e contemporaneo, è una chiave interessante per progettare in città come Roma. Quale equilibrio potrebbe trovare l’architettura in questo rapporto tra eredità storica e necessità contemporanee?

E.D. : Questo è un grande problema. Se lo guardiamo in prospettiva, Roma ha una storia millenaria, ma tra qualche secolo anche il presente sarà parte di quella storia. La città è un ciclo continuo, e in ogni epoca si aggiunge un nuovo strato. Il rischio delle città con molteplici stratificazioni storiche è la paralisi: il suolo utilizzabile diminuisce e tutto è tutelato: è un dilemma. Ovviamente, dobbiamo preservare il patrimonio storico, è fondamentale. Allo stesso tempo, però, credo nell’importanza di trasformare gli edifici in un modo che sia “sensibile” alla loro storia, ma che sappia anche dargli nuova linfa vitale evitando che si cristallizzino come musei. Permettendo loro di continuare a svolgere funzioni, anche diverse da quelle originali. Quando si progettano nuovi edifici, è necessario considerare una certa flessibilità, costruire con strutture capaci di evolversi, di sopportare ampliamenti o nuovi utilizzi senza chiudere alle possibilità future. Il problema delle città storiche è che spesso si espandono nelle periferie in modo indiscriminato, perdendo identità. La città è un organismo, con tante diverse parti vitali che gli permettono di “respirare” e supportare, tra l’altro, lo svolgimento di attività lavorative, vita quotidiana, istruzione, cultura. È molto importante, quindi, che cresca in modo responsabile e proporzionato. Considerando che la popolazione mondiale crescerà e che le città cresceranno, dobbiamo interrogarci su come confrontarci con le meravigliose città storiche  senza trasformarle in musei o trappole per turisti.

C.R. : Il tema è in parte già stato toccato, ma quale sarebbe la tua visione della città del futuro, in particolare di Roma?

E. D. : Gli architetti devono essere coinvolti, insieme agli urbanisti e agli sviluppatori, interessati alla crescita, per creare una visione coerente che consideri tutti questi elementi in movimento. Non possiamo semplicemente aggiungere un edificio dopo l’altro, uno sviluppo urbano dopo l’altro. Una città non è solo trasporto e logistica: ha un’anima. Di solito le città non nascono da un giorno all’altro, si creano nel tempo. Le città migliori sono quelle che si evolvono in modo naturale, organico. Bisogna piantare un seme affinché qualcosa cresca naturalmente e non pensare solo a “produrre” una nuova città e ad averla lì all’istante.

C.R. : Come è cambiato il ruolo dellarchitetto e quali sono le questioni principali su cui , oggi, dovrebbe concentrarsi?

E.D. : Gli architetti spesso si trovano intrappolati in un sistema già esistente, si inseriscono in esso. Ci sono clienti, visioni, amministrazioni pubbliche, consulenti ed esperti di ogni tipo che influenzano un progetto urbano. L’architetto deve essere come un direttore d’orchestra o un regista: deve fornire la visione d’insieme, intelligente e sensata, facendo muovere tutti nella stessa direzione verso la realizzazione. Tuttavia, molte volte ci si scontra con la paura del cambiamento, in particolare da parte delle amministrazioni pubbliche. È fondamentale trovare un equilibrio tra le esigenze economiche, sociali ed estetiche, coinvolgendo anche i cittadini, che non devono essere solo dei destinatari, ma avere voce in capitolo. C’è l’opportunità di instaurare un dialogo virtuoso. Credo, inoltre, nell’importanza della competenza. Troppo spesso si delegano decisioni a tutti tranne che agli architetti. Invece penso anche che la figura dellarchitetto “della città”, ovvero di architetti che operino nell’interesse della salute e della bellezza di una città, sia estremamente importante. Non tutte le città hanno architetti “civici”. Credo che questa figura possa proteggere e difendere visioni che forse sono troppo provocatorie e troppo innovative per essere accettate immediatamente da tutti. È una sorta di filtro, un mediatore tra il linguaggio dellarchitettura e le necessità politiche che consentono ai progetti di essere realizzati.

C.R. : Larchitettura , dunque, è sempre un atto politico, perché riguarda i cittadini e la civitas…

E.D. : È inevitabilmente politica. Altrimenti, progetteremmo solo per noi stessi, senza cambiare nulla. Gli architetti devono sedere al tavolo, non solo ricevere incarichi. Devono difendere i progetti dalle semplificazioni e dai tagli economici, trovare soluzioni che funzionino per la città e per le persone. Troppo spesso vengono estromessi, troppo presto. Dovremmo sempre essere presenti nei processi decisionali, perché siamo in grado di prendere decisioni difficili, sempre con lobiettivo del bene pubblico. Assolutamente. Se larchitettura non fosse politica, progetteremmo solo per noi stessi e non cambierebbe nulla. È essenziale che gli architetti siano parte del processo decisionale sin dallinizio, contribuendo alla definizione del progetto e difendendone il valore. Troppo spesso vengono estromessi e troppo presto. Dovrebbero essere sempre presenti al tavolo delle decisioni, perché sono in grado di prendere decisioni difficili, ma sempre con l’obiettivo del miglior risultato per la città e per il bene pubblico.

English translation:

Interview with Elizabeth Diller

In an era of uncertainty and rapid change, architecture cannot be a rigid and immutable entity; it must be capable of adapting and transforming. This is one of the key messages that emerge from the reflections of Elizabeth Diller, one of the most influential figures in contemporary architecture and co-founder of the New York-based firm Diller Scofidio + Renfro (which recently lost co-founder Ricardo Scofidio at the age of 89). While in Rome for the exhibition “RestlessArchitecture” (curated and designed by DS+R), currently on display at the National Museum of 21st Century Arts (MAXXI), the American architect gave a video interview to the Order of Architects PPC of Rome and its province. She discussed themes of the exhibition, as well as her design approach, offering insights into the future of architecture—and beyond—examining cities from their historical roots to their development prospects and reflecting on the role of architects as political actors in urban transformations.

In conversation with OAR council member Claudia Ricciardi, Diller elaborates on a key concept: for architecture to remain relevant, it must be capable of transformation in terms of adaptability and resilience. A building that “bends to the wind instead of resisting it,” structures that adapt to the needs of cities and people, and works that “stay alive”—this is the vision that emerges from Diller’s words and guides the projects developed by DS+R, such as The Shed, the iconic High Line, and the renovation of Lincoln Center, all in New York.

In its interaction with the city and its community, architecture is neither neutral nor passive; it is political and social. Diller shares her perspective on the future of Rome, advocating for a balance between preserving historical heritage and embracing new designs, ensuring that the city does not crystallize into an open-air museum. Here is the full interview.

Claudia Ricciardi (OAR): Mobile and adaptable architectures—what is the common thread, the primary meaning of “instability” that the selected projects in the exhibition pursue? And is it possible to translate this idea into economic, social, or geopolitical contexts?

Elizabeth Diller: Perhaps I would reconsider the term “instability.” In reality, it’s not about instability but rather mobility, adaptability, operability, and ecoydynamism. The core idea of the project is that architecture, which we normally think of as stable and grounded, is actually more vulnerable when it remains static. If, instead, we conceive of an architecture capable of transformation—of moving to avoid danger, adapting to the environment, and staying alive—then it has a chance of resisting obsolescence and destruction. In this way, the lifespan of a building is effectively extended.

C.R.: So flexibility—and in this sense, perhaps, instability—as keys to engaging with the context itself: what interactivity strategies should architecture incorporate, beyond movement?

E.D.: That’s a broad question about how we build. When we construct buildings, they are expensive, take a long time to design and execute, and by the time they are completed, their intended program is already somewhat outdated. How can we design for a future we cannot predict? This is one of the central issues the exhibition explores. We want architects to reflect on this period of immense change, happening faster than we can contemplate. How can architecture conceive of itself in a way that does not become irrelevant? And how can it help solve problems rather than create new ones for people? We don’t want to see cities in ruins, right? Obviously, we can’t change political actions that are beyond our control. But we can ensure that buildings become more resilient. They should be less like fortresses and more flexible, capable of adapting to change. This also applies to earthquakes and floods—buildings can be elevated to avoid flooding or bend with the wind instead of resisting it. It’s a different way of thinking about Vitruvian stability and traditional architectural ideals. Resilience comes from adaptability, not from resistance.

C.R.: In this sense, many projects seem to embrace openness—the ability of a building to accommodate changes over time. Thinking about everyday use, there’s always something that goes beyond function or aesthetics. This openness allows people and visitors to modify and inhabit that space. Is there a building that, after being designed with these principles in mind, has evolved in an unexpected way?

E.D.: I think most buildings are used differently than originally intended. Unpredictability is inherent in architecture. Regarding the first part of your question, the exhibition features The Fun Palace by Cedric Price, which inspired many post-war reflections—an architecture conceived as a flexible structure with components that can be changed, moved, or replaced. This influenced our project, The Shed, which is based on infrastructural architecture: it provides shelter from the rain, has a structural framework, an environmental control system, electricity—everything a building needs. But the space is not rigidly defined, though it is not generic either. The key idea is to create a distinctive architecture capable of taking different forms, supporting different uses and productions, while maintaining its identity without becoming a static image.

C.R.: You mentioned building obsolescence, which extends beyond the end of a structure’s functional life and allows for different uses over time. The dialogue between past and present—or future—between historical heritage and contemporary needs, is a compelling key to designing cities like Rome. What balance can architecture find between historical legacy and modern necessities?

E.D.: This is a major issue. Looking at it in perspective, Rome has millennia of history, but in a few centuries, the present will also be part of that history. The city is a continuous cycle, with each era adding a new layer. The risk for cities with extensive historical stratification is paralysis—the available land decreases, and everything is protected. It’s a dilemma. Of course, we must preserve historical heritage; it’s essential. At the same time, I believe in transforming buildings in a way that is “sensitive” to their history while giving them new life, preventing them from becoming frozen as museums. New buildings must incorporate flexibility, be designed to evolve, accommodate expansions or new uses without closing off future possibilities. Historic cities often expand indiscriminately into their peripheries, losing identity. A city is an organism with many vital parts that allow it to “breathe” and support work, daily life, education, and culture. It’s crucial for it to grow responsibly and proportionally. With the world’s population increasing and cities expanding, we must consider how to engage with these wonderful historic cities without turning them into museums or tourist traps.

C.R.: We’ve touched on this topic already, but what is your vision of the city of the future, particularly Rome?

E.D.: Architects must be involved, along with urban planners and developers interested in growth, to create a coherent vision that considers all these moving elements. We can’t simply add one building after another, one urban development after another. A city is more than transportation and logistics; it has a soul. Cities aren’t usually built overnight; they evolve over time. The best cities are those that grow naturally and organically. You have to plant a seed for something to grow naturally rather than just “producing” a new city and expecting it to appear instantly.

C.R.: How has the role of the architect changed, and what are the key issues architects should focus on today?

E.D.: Architecture is inevitably political. Architects must have a seat at the table, not just receive commissions. They must defend projects from oversimplifications and budget cuts, finding solutions that work for both cities and people. Too often, they are excluded too early. Architects should always be present in decision-making processes because they are capable of making difficult choices with the public good in mind.

Visual Editing: Giuseppe Felici

Architetto, Redazione AR Web

ALLEGATI
PHOTOGALLERY

TAG

CONDIVIDI

VEDI ANCHE
Febbraio 12 2025
di Giulia Villani Architetto, Coordinatrice Redazione OAR Semplicità, eleganza, tecnologia, plasticità. Queste le parole chiave della nuova scenografia progettata da...
intervista
Architettura
Febbraio 5 2025
Isaac Asimov, le leggi della robotica, le città galattiche e la teoria ekistica dell’architetto Doxiadis Uno dei temi più stimolanti...
articolo
Architettura
Gennaio 24 2025
[Premessa al nuovo numero doppio della rivista ufficiale dell’Ordine degli Architetti di Roma e Provincia: 𝗔𝗥 𝗠𝗮𝗴𝗮𝘇𝗶𝗻𝗲 𝟭𝟮𝟵-𝟭𝟯𝟬 / “𝗗𝗮𝗹...
articolo
Architettura