Atti del Convegno “Abitare la Terra” – A cura di Daniela Gualdi e Flavio Trinca
Si ringraziano gli ospiti intervenuti per la preziosa partecipazione.
Si ringraziano Simona De Sanctis, Antonietta Salustri e Laura Tondi per il contributo alla trascrizione degli atti.
V SESSIONE
Flavio Trinca: Introduco la quinta sessione e ringrazio gli ospiti che sono qui in presenza, Mosè Ricci e Susanna Tradati. In questa ultima sessione del convegno vogliamo chiudere nel segno della speranza, di prospettive per il futuro; con l’auspicio che questo evento possa rappresentare uno stimolo per successive riflessioni, in occasione delle prossime edizioni della Giornata Mondiale della Terra; iniziative che vorremmo portare avanti con il sostegno dell’Ordine degli Architetti di Roma.
Introdurrei i nostri ospiti, Kongjian Yu e James Corner, architetti paesaggisti di fama mondiale, Mosé Ricci, architetto urbanista, Susanna Tradati architetto partner dello Studio Nemesi e Irene Giglio, architetto presso lo studio Mario Cucinella Architects.
Vorrei iniziare presentandovi Kongjian Yu, un pianificatore ambientale e paesaggista cinese, professore di architettura del paesaggio all’Università di Pechino dove è fondatore e preside della Graduate School of Landscape Architecture. È inoltre fondatore e caporedattore della rivista Landscape Architecture Frontier. Laureato ad Harvard, nel 1998 ha fondato lo studio di pianificazione e design, Turenscape, uno dei più grandi studi di architettura del paesaggio al mondo; con sede a Pechino, vanta circa 600 professionisti, tra cui architetti, ingegneri, urbanisti e biologi; lo studio fornisce servizi di architettura, architettura del paesaggio, design urbano e urbanistica, infrastrutture ecologiche e strutture verdi.
Nel 2016 allo studio è stato conferito l’Honor Award dall’ASLA, American Society of Landscape Architects; Kongjian Yu personalmente è stato insignito di numerosi premi, tra cui l’ultimo in ordine di tempo, nel 2020, il Sir Geoffrey Jellicoe Award 2020 dell’IFLA (International Federation of Landscape Architects). Ci presenta un suo contributo dal titolo Sponge City.
Kongjian Yu
Buongiorno, grazie mille. È un piacere enorme essere qui oggi e partecipare a questa conferenza di stampo internazionale. In realtà, in questo momento non sono a Pechino, sono in un luogo remoto, nel sud della Cina. Quella che vedete alle mie spalle è una parete vivente e ora condividerò con voi le mie slide.
Come è stato detto nella presentazione parlerò della sponge-city ovvero della città-spugna. Quella che vedete alle mie spalle è la più piccola città spugna al mondo che raccoglie l’acqua e la filtra.
Che cosa sono le città spugna? Sono città che sfruttano la natura, fruendone come se fosse un’infrastruttura ecologica. In questo momento noi stiamo affrontando diverse sfide rappresentate dalle inondazioni, dalla siccità, dall’inquinamento e dalla perdita di habitat naturali. Questi problemi riguardano tutti i paesi, ma in Cina e nell’Asia del sud-est sono problemi ancor più gravi. Stiamo parlando di paesi in via di sviluppo; e inoltre stiamo affrontando anche la pandemia da Covid.
Sono tutte questioni correlate l’una all’altra. Di solito noi cerchiamo di trovare delle soluzioni e queste soluzioni sono rappresentate dall’ infrastruttura grigia, per esempio attraverso la costruzione di dighe, di argini, di pompe, di condutture sempre più grandi, di pompe e in generale di infrastrutture sofisticate per tentare di risolvere i problemi; in realtà questa infrastruttura grigia non è sufficientemente resiliente, quindi è arrivato il momento di cercare delle alternative e queste alternative sono basate sulla natura, sugli elementi naturali ovvero un’ infrastruttura verde, non grigia. Molti di voi prima di me hanno già parlato dell’infrastruttura verde, questa infrastruttura vsi basa su fonti ecologiche di diverso tipo: la fornitura di cibo, deve supportare la vita e fornire dei servizi di carattere spirituale, culturale e può essere costruita su scala globale, ma anche su scala nazionale e locale.
Che ci crediate o no, l’idea di questa città-spugna e di una infrastruttura ecologica è divenuta una campagna nazionale in Cina. La prima cosa che si deve fare è realizzare una pianta, questo è il punto di partenza della nostra strategia. Dobbiamo pensare a livello regionale, nazionale e anche mondiale. Quello che dobbiamo fare è integrare in questo schema tutte le infrastrutture verdi presenti, pensiamo agli stagni, ai laghi, ai parchi, ai fiumi. Questa è l’infrastruttura che occorre creare, costruire e mappare.
Poi c’è un altro aspetto importante che riguarda la tecnologia; non si tratta di una tecnologia industriale. Quella di cui noi abbiamo bisogno è una tecnologia basata sulla natura e soprattutto una tecnologia ispirata alla saggezza dell’antichità in materia di agricoltura e di gestione dell’acqua. Di fatto noi stiamo cercando di formalizzare, di standardizzare delle soluzioni basate sulla natura per risolvere in modo olistico gli attuali problemi ecologici presenti a scala urbana; in particolar modo quei problemi connessi con il cambiamento climatico: la mitigazione e l’adattamento al mutamento climatico.
Questi sono alcuni dei modelli che sono stati progettati ispirati alla natura, modelli presenti da millenni come i terrazzamenti, la creazione di laghetti e di laghetti che fungono da diga e poi questo modello ad isole. Si tratta di soluzioni low-tech che creano e plasmano il paesaggio per dare risposte ai problemi con cui siamo alle prese, modificando in modo drastico la superficie della terra. Per cercare di affrontare e risolvere in particolare i problemi legati alla carenza di acqua. Negli ultimi vent’anni noi abbiamo cercato di applicare queste soluzioni basate su elementi naturali per risolvere i problemi di oltre 200 città cinesi. Ma non solo in Cina, in realtà abbiamo sviluppato questi progetti anche in altre città del globo.
Ora vi vorrei parlare di un progetto piuttosto recente per mostrarvi in che modo queste soluzioni naturali low-tech possono aiutarci a risolvere i problemi, con i quali siamo alle prese, in modo rapido e a costi estremamente ridotti. Il primo progetto è la città di Sanya nel sud della Cina, nell’isola di Anja. Questi sono i tipici problemi con cui la città nella stagione dei monsoni: le inondazioni e poi l’ inquinamento; l’inquinamento che è molto forte nella città ed è influenzato anche dai monsoni. Naturalmente il valore della terra è diminuito in modo drammatico e le persone stanno soffrendo enormemente questa situazione.
Il 60% delle città cinesi subiscono inondazioni, oltre all’inquinamento. Quindi quello che abbiamo fatto è stato creare uno schema per cercare di comprendere l’impatto che una città-spugna avrebbe potuto avere, per cercare di dare più spazio all’acqua, per purificarla e per rinnovare le falde acquifere. L’idea base è quella di creare città che siano resilienti, il tutto adottando un approccio diverso da quello del passato. Prima si creavano dighe e argini, noi invece cerchiamo di concentrare l’acqua in determinati punti, di trattenere l’acqua e distribuirla ricaricando le falde acquifere. È un approccio completamente diverso rispetto al passato. Mentre prima si canalizzava l’acqua e si cercava di concentrarla in luoghi specifici ora si cerca di adattare l’ambiente all’acqua, cercando di espandere quei punti in cui l’acqua per natura tende a concentrarsi. Quindi abbiamo creato quest’area, che nella slide è delimitata dal rosso, come area critica in cui l’acqua tende a concentrarsi e abbiamo messo in atto un approccio che potremmo definire come quello dell’agopuntura.
Che abbiamo fatto? Abbiamo dato vita a un’infrastruttura ecologica. L’area che vedete è al centro della città e quello che abbiamo condotto è proprio un esperimento. Si tratta di un’area di un chilometro quadrato di estensione e qui ci siamo lasciati ispirare dalle tecniche di terrazzamento del passato. Abbiamo creato stagni e laghetti, isole nella parte centrale in grado di assorbire le sostanze inquinanti e poi nella parte più scoscesa abbiamo creato dei terrazzamenti, per fare in modo che lì nascesse della vegetazione capace di rimuovere alcune delle sostanze nocive presenti nell’acqua, contrastando in questo modo il problema dell’inquinamento.
Per realizzare questo progetto c’è voluto solo un anno: un’operazione estremamente semplice dalle conseguenze immediate per creare questo paesaggio. In questo modo l’acqua piovana viene catturata, viene filtrata e purificata e nello stesso tempo vengono creati degli habitat per favorire la biodiversità, luoghi che allo stesso tempo possono essere utilizzati come spazi pubblici dalla popolazione. Questa è l’immagine di come si presenta l’area a tre anni dall’inaugurazione. Vedete come la vegetazione sia estremamente florida, lussureggiante. Vedete, questa è la combinazione di tutti i sistemi che abbiamo analizzato, ci sono le isole, gli isolotti presenti al centro del lago; qui di fatto si trattiene l’acqua che viene filtrata e si creano degli habitat per la biodiversità.
Queste sono due foto, quella in alto è del primo anno e quella in basso è del terzo anno. Guardate gli alberi come sono cresciuti questi alberi, come tutta la vegetazione in generali, sono fondamentali per eliminare le sostanze inquinanti dall’acqua. Guardate come è cambiata la situazione dopo solamente tre anni, vedete la differenza, vedete l’espansione dell’acqua, vedete prima quale era la superficie occupata dall’acqua in caso di inondazione. Il problema delle inondazioni può dirsi oggi risolto.
Adesso vedete la situazione attuale, l’acqua è concentrata in alcune zone specifiche le zone che noi abbiamo creato, le zone-spugna. E questo in soli tre anni, inoltre abbiamo creato anche degli habitat, abbiamo creato anche degli spazi pubblici e questo aumenta il valore immobiliare dell’area. C’è stato dunque un ripristino del valore dell’area, non solo del valore immobiliare ma anche del valore ecologico.
L’altro progetto di cui vorrei parlarvi, che ha sempre a che vedere con la Cina, riguarda il sistema di drenaggio del fiume Meshe, ad Haikou City. Anche in questo caso si trattava di un grandissimo problema per la città, perché il fiume era stato canalizzato. La canalizzazione dei fiumi avviene ovunque in Cina, ma tutto questo ha un costo che è quello soprattutto delle inondazioni e dell’inquinamento. C’è un’unione dell’acqua dei fiumi con le condutture di scarico e, potete immaginare, come durante la stagione dei monsoni non sia possibile gestire questo aumento improvviso della quantità di acqua; si tratta di un problema molto grave sotto l’aspetto dell’inquinamento ambientale.
La soluzione è stata quella di creare l’argine che voi vedete per cercare di contenere le inondazioni.
Tuttavia con il trascorrere degli anni il problema si è inasprito sempre più, quindi abbiamo deciso di implementare un’idea diversa, ovvero costruire un’infrastruttura verde. Guardare alla città come un sistema verde lungo 25 km, guardare a questo sistema come un sistema unico. Per prima cosa abbiamo rimosso il cemento e sostituito l’ infrastruttura grigia con l’ infrastruttura verde, abbiamo rimosso il cemento e tutti gli elementi che contrastavano la vivibilità del luogo. Le persone sono rimaste estremamente sorprese del fatto che siamo riusciti a rimuovere tutto il cemento presente. Inoltre abbiamo terrazzato l’area costiera che scorreva lungo il fiume, canalizzato l’acqua piovana e abbiamo fatto in modo che la natura si occupasse di tutto il resto.
In alcune città della Cina ci sono villaggi urbani nei quali la fognatura non è connessa alla fognatura centrale. Allora cosa abbiamo fatto? Abbiamo utilizzato la natura per ripulire l’acqua proveniente da questi villaggi con la creazione di terrazzamenti, pontili e così da generare un sistema in grado di ritenere l’acqua, filtrarla, purificarla.
Queste immagini ritraggono l’intero processo, processo che ha impiegato solamente un anno. Quello che abbiamo fatto, è di riportare la natura al centro di questo sistema fluviale, per farla tornare al centro della città. Come potete vedere queste sono delle mangrovie, ora le mangrovie possono nuovamente crescere sulle sponde del fiume, la vita è abbondante e florida, ogni giorno vengono prodotti 6000 metri cubi di acqua pulita e tutto questo attraverso un sistema di terreni acquitrinosi. Vedete quanto la vegetazione sia rigogliosa. Questa natura è fondamentale perché rimuove il nitrogeno, purifica l’acqua. Abbiamo utilizzato il cemento che avevamo rimosso per creare delle isole all’interno di questa struttura, tutto questo per far sì che anche la fauna si reinsediasse in quest’area. Questo è un diagramma che mostra in che modo l’acqua sia purificata e quanto la percentuale di fosforo e di nitrogeno possa essere rimossa dall’acqua piovana. Ora più che mai dobbiamo ripensare il modo in cui costruire le nostre città ed in tal senso è fondamentale purificare l’acqua.
La rivoluzione attualmente in atto è la rivoluzione che io chiamo Big Feet, la Rivoluzione dei Piedi Grandi. Perché dei piedi grandi? Per liberarli, per slegare questi piedi legati che rappresentavano parte integrante della cultura cinese. Dobbiamo modificare il modello imperante, utilizzare la natura al fine di risolvere i problemi con cui siamo attualmente alle prese e che così tanto ci stanno costando. È l’unico modo per dar vita a questa rivoluzione. Allo stesso tempo però dobbiamo riutilizzare delle tecniche estremamente semplici che sono state utilizzate per migliaia di anni nel passato, dobbiamo pensare come un re, un re che sa pensare al territorio su scala globale, in tutto questo dobbiamo agire come contadini che conoscono la realtà e l’ambiente circostante.
Questi sono due punti che vorrei sottolineare. Dobbiamo agire non solo come professionisti, dobbiamo anche convincere i politici, coloro che ci governano, a modificare le leggi e le norme in atto, perché solo in questo modo sarà possibile costruire la nuova infrastruttura politica; progettare il nostro ambiente in un modo completamente nuovo che sia professionale e che io chiamo ecologia della progettazione. Grazie mille
Flavio Trinca: Molte grazie professor Kongjian Yu, da paesaggista, nel mio piccolo, soffro da questa mattina di sensi di inferiorità: Salgado ci fa vedere che pianta gli alberi sulla Mata Atlantica e dopo pochi anni ha una foresta, lei ci fa vedere addirittura degli interventi che dopo un anno sono completamente rinverditi, mentre noi difficilmente riusciamo a far crescere anche solo qualche piccola pianta. Con lei ci siamo incontrati in un convegno in Spagna tanti anni fa, e lei parlava di queste prospettive che ci sarebbero state per la Cina, cioè di ripensare all’approccio allo sviluppo e mi fa enormemente piacere vedere che la sua teoria, la sua visione ha avuto un seguito.
State facendo veramente molto, da questo punto di vista siete un paese giovane anche se in realtà si tratta di un paese antichissimo, un paese giovane nel senso di paese dinamico. Lei diceva che avevate prodotto molti danni dal punto di vista ambientale, ora state riparando con molta più velocità di quanto stiamo facendo noi in occidente. La ringrazio moltissimo per questi bei progetti, ma soprattutto per la strategia, per il messaggio molto positivo che ci ha lanciato. La ringrazio moltissimo.
Presento l’altro ospite straniero, un altro grande paesaggista: il professor James Corner è un architetto e teorico del paesaggio inglese che lavora stabilmente negli Stati Uniti. Professore emerito di Architettura del Paesaggio e Urbanistica presso la University of Pennsylvania School of Design. Fa parte del Consiglio dell’ Urban Design Forum e del Comitato consultivo del governo di Shenzhen. La sua attività di ricerca accademica e professionale è incentrata sullo “sviluppo di approcci innovativi verso la progettazione architettonica del paesaggio e l’urbanistica” – ormai riconosciuta come teoria del Landscape Urbanism – basato su una ricerca interdisciplinare che interseca le discipline dell’ecologia, del paesaggio e del disegno urbano, della biologia. Ha dedicato gli ultimi 30 anni di attività alla ricerca nel campo dell’architettura del paesaggio e dell’urbanistica, principalmente attraverso progetti urbani complessi e ad alta visibilità in tutto il mondo; qui in Italia Corner è noto perché insieme agli architetti Diller Scofidio+Renfro ed al planting designer Piet Oudolf – ha realizzato quello che qualcuno qualcuno ha definito “il più importante progetto di architettura degli ultimi 20 anni”, la High Line di New York, che ha fatto gridare tutti noi al miracolo anche se ha portato qualche problema dal punto di vista sociale.
Attualmente lo studio James Corner Field Operations è impegnato nel grande progetto di rigenerazione della discarica di Manhattan, Freshkill Park, che è la discarica di New York con un’estensione superiore a tre volte la superficie di Central Park, oggi uno dei più grandi progetti di opera pubblica al mondo.
James Corner
Vi porto i miei saluti da New York City, è un grande piacere prendere parte a questo dibattito di stampo internazionale in occasione della Giornata Mondiale Della Terra e ascoltare le parole di un carissimo amico quale Kongjian Yu, che ha realizzato dei lavori meravigliosi in tutto il mondo e in particolar modo in Cina; è davvero un estremo piacere poter condividere questa sessione con lui e con tutti voi naturalmente.
Per iniziare, il mio studio si compone di 80 persone.
Due anni fa abbiamo inaugurato una collana di libri, in cui invitavamo ciascun componente del mio ufficio a presentare una pagina su un luogo, che un paio d’anni fa aveva come tema la natura. Si passava da immagini che ritraevano una natura benevola a immagini che invece ritraevano una natura che cercava di sopravvivere e che mostrava i grandi effetti del mutamento climatico. C’erano immagini del mondo animale che richiamavano il fatto che noi condividiamo il pianeta con molte altre vite che vanno prese in considerazione. La bellezza della natura, la sua intelligenza, la capacità di adattarsi ai cambiamenti e le meravigliose forme che la natura è in grado di produrre, forme della natura cosmiche, misteriose. Una nozione della natura che a volte cerca semplicemente di sopravvivere, senza troppo riflettere, quindi un’azione quasi meccanica, una forza meccanica.
Quest’anno invece ci siamo occupati delle città e la copertina del nostro libro rappresenta la città come un mondo, una geografia, di biologie, di storia, di teologia, di persone e questa immagine della città mostra non tanto spazi aperti, parchi, strade quanto piuttosto una collezione di tutto ciò che è umano e di tutto ciò che è naturale, integrato assieme, in una visione, in un modello che potremmo definire olistico. La città quindi viene rappresentata come un mondo e naturalmente Roma, dove vi trovate voi, può essere vista come questa rete di spazi aperti. Questa invece è Londra come un mosaico meraviglioso, un tessuto di comunità e di quartieri variopinto.
New York City contemporanea, una realtà molto più economica, molto più basata sulle logiche del mercato, cosmopolita, dinamica, è la nozione di una città come una sorta di organismo vivente che pulsa, che respira, inspira e espira, che ha una propria energia, che ha dei propri meccanismi che ne permettono il funzionamento. Ma la città intesa anche come luogo d’amore, ovvero come luogo dove le persone possono incontrarsi, possono lavorare, possono danzare, possono trascorrere del tempo con altre persone, una città diversa, una città dell’inclusione, in cui le persone possono entrare in contatto con persone diverse da loro, un melting pot cosmopolita, come avviene negli spazi verdi, negli spazi aperti in cui le persone possono incontrarsi semplicemente per poter godere di questi spazi, per prendere parte a delle forme di vita pubblica. La città intesa anche come luogo in cui troviamo diverse tipologie di cibo, pensavo a Roma dove il cibo è probabilmente uno degli elementi che rende questa città così bella. La natura e la città sono proprio due degli elementi di cui voi avevate intenzione di parlare oggi.
Questa è un’immagine del nostro pianeta, si tratta di un grafico molto famoso che mostra l’aumento della popolazione mondiale e la diminuzione delle risorse a disposizione, non solamente risorse fossili, come ad esempio il petrolio o il carbone, ma anche l’acqua e la qualità dell’aria e, analizzando questo diagramma, vediamo come il declino sia inevitabile. La popolazione continua a crescere, nel 2021 abbiamo 7 miliardi di persone mentre fino a qualche anno fa la popolazione era meno della metà e questa tendenza alla crescita è sempre più evidente. Ci sono molti libri che hanno cercato di studiare le implicazioni della crescita della popolazione e quello che sto mostrando è uno di questi. La città sta diventando sempre più fondamentale nel sostenere forme di vita umana. Il 10% delle persone vivevano nella città nel 1900, ma il 75% delle persone vivrà nelle città nel 2050. Una percentuale nettamente maggiore di una quantità di persone nettamente maggiore, perché abbiamo visto quanto la popolazione mondiale sia cresciuta. Questa è un’immagine della Cina che mostra l’estrema densità di popolazione, gli spazi a disposizione per ogni cittadino sono sempre più ridotti, sempre più limitati e tutto questo ha delle ripercussioni a livello di mobilità, a livello di gestione delle acque e dei rifiuti.
Senza dubbio ci deve essere un modo per pensare a un design, a una progettazione migliore della città per una popolazione in continua crescita, ma per farlo va adottato un approccio, un’ottica sostenibile. Due mesi fa è stato pubblicato un articolo molto interessante sul New York Times da parte di Thomas Friedman, che descrive il modo in cui abbiamo “rotto” il mondo. Una delle questioni di cui parla è riferita al fatto che negli ultimi vent’anni abbiamo rimosso sempre più questi cuscinetti naturali, le regolamentazioni e le norme che consentivano la resilienza e la protezione nei momenti in cui i sistemi geopolitici, ecologici e finanziari venivano indeboliti. Abbiamo rimosso questi cuscinetti senza pensare a ciò che stavamo facendo. Allo stesso tempo abbiamo adottato delle condotte estreme, siamo andati contro il senso comune e contro dei confini e limiti di carattere politico, finanziario e non solo. Tutto questo ha delle conseguenze molto importanti, perché aumenta lo stress in tutto il mondo, e lo stress sul mondo va contro la creazione di sistemi equi e soprattutto non favorisce il benessere della popolazione mondiale.
Attraverso il nostro lavoro cerchiamo di affermare un approccio olistico nei confronti delle città. Nella fila in alto dell’immagine potete vedere quello che bisogna fare per creare una città bella relativamente alle reti d’acqua e le reti verdi. Nella seconda fila vedete come fare per rendere una città più vivibile, in particolar modo con interventi a livello di mobilità, creando una città composta da diversi quartieri e generando un’interazione fra loro. Nell’ultima riga si vede la creazione di connessioni e la realizzazione di una società sostenibile, ovvero la gestione delle risorse d’acqua, la gestione dell’energia.
Questo è il masterplan che abbiamo realizzato per la città cinese di Shenzhen. Questo è il sito su cui ci siamo trovati ad operare qualche anno fa, era una discarica. In realtà molte delle problematiche che ci siamo trovati ad affrontare, in termini di inquinamento di gestione dell’acqua e dei rifiuti, sono le problematiche di cui ha parlato Konjian Yu. Il nostro masterplan si strutturava intorno alla creazione di blocchi di quartieri a scala umana, cercando di creare un mosaico di tipologie costruttive, dando vita a un vero e proprio mix. Tutto questo intorno a cinque finger, con una combinazione di parchi che a loro volta avrebbero processato e trattato l’acqua un po’ come ha spiegato Konjian prima durante la sua presentazione.
Abbiamo creato un sistema verde attorno al quale una nuova città potrà svilupparsi, ci sono diverse tipologie costruttive di edifici opera di architetti diversi, ma l’importante è la creazione di uno spazio aperto, che permetta la purificazione dell’acqua, la purificazione dell’aria, che promuova la biodiversità e che sia in grado di generare nuovi spazi per la popolazione. È inoltre possibile coltivare cibo, coltivare degli orti, generare energia pulita e abbiamo guardato anche alla promozione di nuove forme di mobilità, naturalmente sostenibile in questo caso, creando delle nuove città di fatto.
Per quanto riguarda invece la High-line di New York questo è un esempio non di una nuova città, bensì del rimodernamento di un’infrastruttura che era presente, cercando di dare nuova vita a una porzione della città che versava in stato di abbandono. Era una porzione di città che sembrava quasi un relitto pericoloso. Nel tentativo di dare nuova vita a questo pezzo di città abbiamo portato in essa una nuova ecologia, creando giardini fluttuanti, un sistema vegetale in grado di riportare una vita biologica in questo territorio e stimolando occasioni di incontro, per promuovere la vita sociale.
Le persone che vediamo in foto possono ora camminare in questo lungo e osservare la città da una prospettiva completamente diversa rispetto a quella alla quale sono abituati. Possono camminare, sedersi, riposare, godere di questi spazi in diversi momenti dell’anno, e apprezzare le diverse manifestazioni della natura. La gioia quindi di persone che semplicemente osservano ciò che le circonda e osservano persone diverse da loro impegnate in attività diverse, l’aspetto teatrale della vita negli ambienti urbani con persone e oggetti che diventano parte di questa sorta di set cinematografico, quindi la comunità intesa come un luogo per costruire la comunità; promuovere la comunità, creare comunità e permettere alle persone di avere spazi a disposizione in cui stare, incontrarsi, trascorrere ore in modo romantico, semplicemente per leggere o prendere il sole, e tutto questo attraverso una espressione molto forte della natura.
La High-line ha permesso anche una rivitalizzazione molto importante di questa porzione della città. Sono nati molti e nuovi edifici e il nuovo si unisce e si mescola al vecchio, dando vita a uno scenario completamente trasformato.
Abbiamo avviato da poco un nuovo progetto a Londra, anche in questo caso si tratta di una struttura sopraelevata, metà della quale continuerà ad essere percorsa dai treni, mentre l’altra metà dovrà essere riprogettata e ripensata per ospitare la comunità, il pubblico. Per rendere verde quest’area non creeremo solamente un corridoio verde in grado di connettere fra di loro diverse parti della città, ma un corridoio vivo.
Che cosa significa? Un corridoio che sia dinamico dal punto di vista ecologico, dal punto di vista della biodiversità e sia in grado di ispirare salute e che in generale sia in grado di offrire un’esperienza totalmente nuova della natura all’interno dello spazio cittadino.
Vorrei terminare la mia presentazione con un ultimo progetto che ritengo rilevante in una giornata come questa, in cui celebriamo la Giornata Mondiale Della Terra; si tratta di un progetto realizzato a Washington DC, se conoscete Washington DC riconoscerete i vari monumenti della Casa Bianca, il memoriale di Jefferson, quello per Lincoln e il fiume Potomac. Come sapete la città è stata costruita su un terreno acquitrinoso, motivo per cui molto spesso è soggetta a inondazioni, in realtà questo è un problema che ha sempre caratterizzato la città. Questa foto è stata scattata all’inizio del 1900 quindi si tratta di un problema persistente che si è aggravato nel tempo. Quest’altra foto è del 1995 e fu fatta quando si era inondata tutta la parte meridionale della città e gran parte degli edifici più importanti erano stati inondati fino al primo piano. Questo bacino che vedete evidenziato, il Tidal Basin, è divenuto un elemento di studio molto importante, per cercare di comprendere come affrontare l’inevitabilità delle inondazioni, ma la sua primaria importanza deriva dal fatto che molti dei memoriali sono ubicati qui, abbiamo quello di Jefferson, quello di Lincoln e altri. Ci sono una serie di monumenti estremamente importanti per la cultura americana, che creano e definiscono questo panorama storico. Questo è il bacino come si presenta oggi giorno. Molto spesso subisce delle inondazioni e durante le tempeste e i temporali tutta l’area viene inondata, quindi tutti i monumenti che abbiamo visto e la storia culturale del luogo sono minacciati e messi in pericolo. Questa è la marea, vedete come i livelli aumentano e quali sono i punti che sono stati raggiunti.
Noi abbiamo sviluppato tre diversi scenari. Il primo si intitola “Curare l’entropia” e consiste nell’accettare l’inevitabilità dei mutamenti che si stanno producendo, permettendo al sito di essere sovrastato dalla natura, di trasformarsi in una rovina, creando una passeggiata sopraelevata, in modo tale che le persone possano vedere questa trasformazione e come il mutamento prenda passo nel corso del tempo, creando poi una struttura per proteggere i monumenti dalle inondazioni. Tuttavia nel corso del tempo il bacino si sarebbe riempito di acquitrini e del relativo habitat. Potrebbe essere un’opzione molto bella con questo muro sopraelevato capace di collegare tutti quanti i monumenti fra loro e potrebbe essere molto significativo, per quanto riguarda la comunicazione di una storia che è quella del mutamento climatico e l’ineluttabilità del cambiamento. Tuttavia è un progetto che avrebbe una qualità molto melanconica di tristezza, potremmo guardare tutto ciò come una perdita, un qualcosa che è stato perso a causa dei cambiamenti intercorsi e questo corpo d’acqua progressivamente si riempirebbe di sedimenti e si trasformerebbe, come dicevamo, in una terra acquitrinosa dove si verrebbe a creare una patina vegetale sui monumenti. Con il mutare della marea questa sarebbe la situazione.
Sicuramente sarebbe un progetto con un forte impatto e si creerebbe forse anche un nuovo tipo di rapporto fra i visitatori e i monumenti. Vedete in questo caso come i visitatori potrebbero guardare Martin Luther King negli occhi e potrebbero, attraverso il percorso sopraelevato, spostarsi lungo i terreni acquitrinosi.
Il secondo progetto l’abbiamo chiamato “Arcipelago”. Anche in questo caso c’è sicuramente un progetto di inondazione, ma è un’inondazione che diventa uno spettacolo. In che senso? Abbiamo proposto delle topografie in grado di proteggere i monumenti creando come delle isole chiuse. È un paesaggio con dei punti di chiusura, ma anche di apertura nei confronti del fiume seguendo la sua stagionalità e quindi il suo livello. È una toponimia che porta soprattutto a proteggere i monumenti e che permette allo stesso tempo di fare delle passeggiate lungo questo paesaggio completamente nuovo. Potrebbe essere molto bello, potrebbe essere qualcosa di estremamente esotico, con questa serie di giardini, con questi monumenti integrati in questo paesaggio, in questo sistema che deve essere concepito come un tutt’uno. Le isole che fluttuano nell’acqua con una natura lussureggiante, quasi a fare da cornice ai monumenti; l’acqua stessa si potrebbe animare, imbarcazioni e pedalò ci permetterebbero di muoverci all’interno e godere di questo specchio d’acqua.
Questo invece è il terzo progetto ovvero “Costruire un muro” per proteggere quest’area, per fare in modo che l’area rimanga monumentale senza subire cambiamenti. In questo caso potete vedere il sistema di circolazione lungo il perimetro di questa costruzione, cercando di creare una struttura sopraelevata che protegga il luogo. Potete osservare il progetto il cui scopo fondamentale è quello di fare in modo che le inondazioni non raggiungano questo punto. Una costruzione fatta in modo tale da creare una parte interna, quella del bacino, più bucolica e protetta dalle inondazioni esterne, con vedute spettacolari; vedete i giardini al di sotto dei quali si potrebbe creare un nuovo centro per i visitatori e nuovi percorsi in modo tale che le persone possano godere a pieno della banchina lungo il fiume, lungo il bacino. Questi percorsi sopraelevati per ri-ubicare i monumenti in questo nuovo paesaggio, volto principalmente a proteggerli, preservando la realtà attualmente esistente. Credo che questo sia un approccio molto interessante che mostra ciò che si può fare nello scenario dei mutamenti climatici e come fronteggiare le dinamiche in atto all’interno della città.
Dunque, in questo caso, abbiamo tre opzioni diverse: un approccio entropico, una trasformazione radicale, oppure la possibilità di lavorare con nuovi sistemi che permettano una combinazione di innovazione e conservazione. Vorrei terminare la mia presentazione con un breve video del progetto. Grazie mille.
Flavio Trinca: Grazie a lei professor Corner, complimenti per i bellissimi progetti checi ha mostrato e per l’approccio, mi sembra particolarmente significativo il fatto che in questa sessione pomeridiana abbiamo iniziato parlando di pianificazione dal punto di vista della sostenibilità e stiamo procedendo con i progetti di due grandi paesaggisti che ci danno la dimensione e la prospettiva per affrontare il tema del progetto.
Proseguendo nel nostro pomeriggio chiederei di intervenire ad Irene Giglio per conto dello studio Mario Cucinella Architect; Irene Giglio ha gestito una serie di progetti importanti concentrandosi principalmente sull’innovazione. Tra le altre cose ha seguito direttamente il Progetto Tecla un habitat stampato in 3D per una vita sostenibile. Ha maturato un’ampia esperienza in progetti espositivi attraverso i quali ha efficacemente comunicato la filosofia dello studio, come la Biennale del Design di Londra nel 2020 e il Padiglione Italia alla Sedicesima Biennale di Architettura di Venezia. È stata invitata molto spesso come relatrice a rappresentare lo Studio Mario Cucinella Architects in eventi e conferenze in Italia e nel mondo.
Irene Giglio
Oggi è una giornata in cui siamo spinti a onorare il nostro pianeta, a incoraggiare una riflessione generale su tutte le sfide globali che il nostro pianeta e anche i suoi abitanti, cioè noi, ci troviamo ad affrontare. E mi fa piacere essere qui per parlare della nostra mission nello studio Mario Cucinella Architects, con particolare riferimento a un progetto che credo possa incarnare bene questo spirito comune, che dovremmo avere, per provare a pensare a un nuovo modo di vivere sul nostro pianeta senza fare più danni come abbiamo fatto finora. Infatti gli architetti, come è stato menzionato nell’intervento prima del mio, sono oggi chiamati a una responsabilità senza precedenti, perché da una parte la popolazione mondiale continua a crescere a un ritmo assolutamente incredibile, che significa che dobbiamo continuare a costruire se vogliamo dare loro una casa, oltre tutto queste persone sono concentrate nei paesi più poveri e saranno concentrate nei paesi più poveri anche nei prossimi 50 anni. Dall’altro lato dobbiamo rispettare l’accordo di Parigi che significa tagliare le emissioni di CO2. Quindi il punto è capire se oggi gli architetti possano effettivamente immaginare un modo totalmente nuovo di costruire, perché il settore delle costruzioni e dell’architettura è di gran lunga uno dei più inquinanti fra tutti gli altri, e allo stesso tempo tentare di portare le emissioni di CO2 a zero. Un compito che sembra proibitivo a meno che non abbiamo il coraggio in qualche modo di pensare a qualcosa di completamente nuovo. Come dicevo prima, la tecnologia in generale, la stampa 3D, la manifattura editiva in particolare, hanno dato prova di essere degli alleati importanti nella riduzione degli sprechi nella costruzione, perché si sa dall’inizio della costruzione esattamente quanto materiale sarà necessario, nel ridurre i tempi, che significa meno emissioni, ridurre i costi eccetera. Però tutti gli esperimenti nel mondo che si stanno facendo sulla stampa 3D si focalizzano sull’uso del cemento, questo perché è un materiale che conosciamo bene e che pone meno sfide.
Però noi crediamo, che stampare con il cemento forse non è una gran cosa per il nostro pianeta. L’idea è quella di accoppiare una delle tecnologie più avanzate con uno dei materiali da costruzione più antichi che l’uomo abbia mai usato, che è la terra. È da questo che nasce Tecla, che viene da Technoly and Clay, ma è anche una delle città invisibili di Calvino, la città che continua a crescere in continua evoluzione. È un progetto che abbiamo sviluppato insieme a Wasp che è una società italiana di specialisti della stampa 3D, sono pionieri in questo campo. Il risultato è quello di un edificio totalmente circolare che è concepito come quasi una trasformazione del suolo. In generale tendiamo a progettare gli edifici come se dovessero vivere e servire per sempre, ma non è così, e quindi poi ci troviamo davanti alla fase di dismatling che è invece probabilmente una delle più onerose, anche in termini di CO2 emessa.
Nel nostro caso una volta che l’edificio non serve più, torna indietro alla terra, viene riassorbito dall’ambiente in un loop che è virtualmente infinito e che non lascia tracce sul nostro pianeta. Quindi il risultato è questo nuovo tipo di habitat che sfrutta la flessibilità offerta dalla stampa 3D; ovviamente capiamo tutti quanto più flessibile e complesso un edificio stampato in 3D può essere rispetto a quelli tradizionali fatti di mattoni, di parte da questa flessibilità per raggiungere il risultato che è un design ottimizzato e adattato per lo specifico contesto, per il clima e per chi abiterà questo prototipo, perché ognuno avrà i propri bisogni le proprie aspirazioni ovviamente un diverso numero di componenti del nucleo familiare, e quindi tutto può cambiare se è disegnato, come lo è questo progetto, in una maniera parametrica. Dal muro, qui alla mia destra, vedete una sezione del muro, ovviamente non è la sezione muraria a cui siamo tutti abituati ma questo è quello che permette di fare la tecnologia, le cui componenti cambiano a seconda delle condizioni climatiche, la massa termica, l’isolamento, la ventilazione, questa sinusoide esterna che vedete che permette di auto-schermare dal sole l’involucro. Tutto questo è ottimizzato per un clima specifico, e la flessibilità della stampa 3D ci permette questo, di avere un involucro che cambia a seconda del clima. Qui ci sono solo un paio di esempi su un grafico temperatura-umidità che ci fanno vedere come effettivamente, dove serve più isolamento, questo strato isolante sia più spesso; dove serve più ventilazione perché la massa termica deve essere ventilata per portare via l’umidità, lo strato ventilante è più grande, più spessi i ricorsi quando serve più massa termica e così via.
Ma è anche la forma generale che può cambiare per assolvere a diverse funzioni legate al clima, quindi se serve una sorta di effetto camino per la ventilazione in un clima molto umido, una forma più compatta, quindi meno dispersiva, per uno freddo, una sorta di semi-underground per i climi che possono beneficiare di più ombra e di una maggiore massa termica offerta dalla terra e così via. Quindi volevo mostrarvi un video molto breve senza audio, che spiega proprio la storia della costruzione, come queste costruzioni vengono eseguite, perché legittimamente ora quasi tutti quando si parla di stampare una casa in 3D sono un po’ confusi su cosa significhi e come si faccia a stampare una casa in 3D.
Ovviamente questo porta con se un nuovo modo di concepire anche il cantiere perché qui vedete la terra è scavata, viene tolta la ghiaia, si aggiunge l’acqua, tutto il materiale di scarto, in questo caso noi abbiamo usato un materiale di scarto che viene dalla lavorazione del riso perché è una zona ricca di risaie, ma si può usare qualsiasi materiale di scarto fibroso. Poi tutto questo materiale viene spinto all’interno di un ugello e viene stampato. Questo significa che si può mandare sul luogo su cui vogliamo costruire solo la stampante, perché il materiale è già lì e questa singola azione già rappresenta una significativa riduzione delle emissioni di CO2. Perché quando si parla di materiale da costruzione il trasporto è la variabile che incide di più.
Si tratta di un esperimento unico nel suo genere; la stampa 3D è una cosa nuova che pone tantissime sfide e problemi, molti più di quelli che ci si aspetterebbe e quindi chiaramente le sperimentazioni sono ancora poche. Il risultato secondo noi, e questo ci riporta al tema della terra, un edificio che viene dalla terra ed è pensato per la Terra, è una casa che è un po’ un edificio con aspetto vernacolare, quindi con muri molto spessi di terra, un involucro molto organico e avvolgente, e un significato invece completamente futuristico; dunque una costruzione tra passato e futuro.
Anche gli interni sono tutti pensati e disegnati per seguire questo modello circolare di cui parlavamo. Quindi dalle stoffe che abbiamo studiato con Orange Fiber, che producono tessuti dagli scarti della lavorazione delle arance, a tutti gli elementi che sono sia riciclati che riciclabili. Per esempio queste sedie che vedete sono fatte di cartapesta di giornale riciclata o stampati o riutilizzabili. Quindi il concetto è che tutta la casa, inclusi i suoi mobili, una volta che non serve più viene riassorbita dall’ambiente oppure i suoi elementi vengono estratti e riutilizzati, come per esempio gli infissi che sono standardizzati in modo da poter essere utilizzati più volte. L’intera casa non produce scarti, non produce rifiuti una volta che è dismatled. Questi spazi poi sono riempiti da una luce naturale che penetra sia dalla porta che avete visto prima, un’ampia vetrata che fa penetrare molta luce naturale e poi questi due sky-light circolari che permettono anche di guardare le stelle durante la notte; un concetto molto romantico e funziona molto bene soprattutto in questo luogo che non ha inquinamento luminoso e diventano proprio i protagonisti dello spazio, gli elementi centrali. Questa è ovviamente una suggestione, però ci sembra che si tratti di un ragionamento efficace: utilizzare un materiale che è disponibile, una conoscenza che abbiamo e che è lì da secoli e che ha permesso all’uomo per secoli di costruire edifici adattati al clima e in cui poteva vivere in condizioni di comfort perché cambiavano e utilizzavano la tecnologia e la conoscenza locale a seconda della latitudine; se utilizziamo questa conoscenza e la mettiamo al servizio della tecnologia che oggi abbiamo, possiamo tentare di ottenere degli edifici capaci di entrare in empatia con l’ambiente.
Quindi non si tratta solo della performance dell’edificio, che oggi forse viene giustamente menzionata ma forse sopravvalutata perché poi se si guarda il life span dell’edificio, ciò che produce più inquinamento è proprio la produzione e il trasporto dei materiali. Quindi si possono costruire edifici infinitamente efficienti ma se non si è fatta attenzione al materiale con cui si sono costruiti, la prestazione può fare poco in confronto a tutto il ciclo di vita dell’edificio, soprattutto se non si pensa alla destinazione di questi materiali una volta che l’edificio non servirà più.
Tutti gli edifici prima o poi andranno disassemblati, distrutti o demoliti; il 100% dei materiali delle nostre costruzioni sono per ora destinati alla discarica, ma per quelli del futuro possiamo decisamente fare qualcosa di meglio.
Quindi se vogliamo risolvere questa crisi climatica di cui abbiamo parlato, forse abbiamo bisogno di una vera rivoluzione nel modo di costruire. Tecla probabilmente non è la risposta, ci sono limiti dovuti alla densità, al fatto che si tratta ancora di un prototipo altamente sperimentale, però secondo noi è una proposta interessante per questa rivoluzione. Grazie
Flavio Trinca: Ringrazio l’architetto Irene Giglio. È molto interessante questa sperimentazione che state facendo che apre una prospettiva un pochino più rosea sul futuro.
Mi piacerebbe sapere dove sono questi edifici, questi prototipi, per poterli vedere dal vivo. Ma mi domando soprattutto se state portando avanti ulteriormente questa sperimentazione e se avete già un’idea di dove eventualmente applicarla.
Irene Giglio: Il primo prototipo è a Bologna. Chiaramente c’è tantissima ricerca da fare perché il materiale va ancora ottimizzato, la forma va ottimizzata e i processi di stampa vanno migliorati, però essendo un concept che si adatta, il clima è un problema relativo. Quello che noi vorremmo fare è proprio risolvere questa Housing Emergency in qualche modo, quindi offrire una casa che è una casa confortevole; il punto è che costruiamo con materiali assolutamente antichi ma in un modo completamente nuovo, questo permette di avere velocemente una casa performante, l’obiettivo è questo.
Poi chiaramente può essere anche adattato a diversi contesti, per esempio particolarmente vulnerabili, quindi dove sarebbe difficile costruire con i metodi tradizionali e invece in questo modo poiché si rispetta totalmente l’ambiente è possibile farlo. I contesti e le applicazioni sono abbastanza vari, innanzitutto bisogna ottimizzare quello che facciamo, adesso c’è da affrontare tutta la fase normativa, ad esempio in Italia si può costruire in terra? Attualmente no, questo bisogna dirlo chiaramente. Ovviamente una volta dimostrato che è una tecnologia che funziona, che sta in piedi, che è sicura, si potrà andare avanti.
Flavio Trinca: Ma in Italia non si potrebbe più nemmeno costruire la Villa Malaparte che abbiamo visto questa mattina, quindi io non mi non mi preoccuperei! La cosa che mi sembra interessante, e che si ricollega al discorso di questa mattina, è che in qualche modo questo esperimento che state facendo, questa ricerca, ci riporta all’antico, alla tradizione. Questa mattina, ci raccontavano gli amici che sono intervenuti, che le prime forme di costruzione con materiale artificiale, in quanto creato dall’uomo, sono state realizzate nel vicino oriente e nascono lì perché non c’era la possibilità di utilizzare altri materiali, non c’era ad esempio il legno, l’unico materiale disponibile era il fango e quindi l’acqua più la terra ha dato luogo al mattone. Il mattone che è il principio forse di tutta l’architettura. Intanto ti ringrazio per la tua partecipazione.
Introduciamo ora l’architetto Susanna Tradati, associato dello Studio Nemesi. Susanna Tradati è nata a Brescia, si è laureata al Politecnico di Milano, dal 2004 collabora con Nemesi di cui nel 2008 è diventato partner associato. Per Nemesi è responsabile delle strategie di comunicazione e sviluppo ed ha curato la gestione strategico organizzativa di diverse commesse, tra cui il Padiglione Italia all’Expo di Milano del 2015.
Susanna Tradati
Buonasera, grazie per avermi invitato in questo interessante dibattito; la cosa più affascinante è proprio vedere questa varietà di punti di vista, questa trasversalità nella visione, nell’approccio al progetto che sia di architettura, di paesaggio, di cinema e nel racconto degli immaginari che queste figure che sono intervenute oggi sono riuscite a fare.
È proprio un po’ dal tema dell’immaginario, che è per noi il progetto, che vorrei partire.
Quindi prima di fare qualche riferimento ai nostri progetti mi fa piacere ragionare su come il paesaggio oggi – ed è un termine che ho voluto scegliere in alternativa ad ambiente perché credo che ambiente sia una parola spesso abusata e il cui significato oggi rischia di diventare un po’ carnefice di sé stesso – contiene dentro il proprio immaginario anche il significato del progetto. Inizio facendovi vedere un’immagine a proposito di artisti e di visioni, che è un’immagine del fotografo americano Aaron Siskind, di cui è molto interessante anche il titolo, che è “Il piacere e il terrore della lievitazione”. Mi piace questa immagine per rappresentare il tema della fragilità, che credo sia un tema molto collegato al dibattito che c’è oggi, sulla emergenza rappresentata dai cambiamenti climatici e anche su come fornire delle risposte convincenti a un problema che ci coinvolge in prima persona come progettisti. Dal mio punto di vista, la fragilità non è solo quella dell’ambiente, anche se rischio di dire una cosa retorica, la fragilità coinvolge fondamentalmente l’uomo e il suo pensiero verso il futuro. Questa fragilità è una fragilità che può rendere l’uomo schiavo di sé stesso e delle proprie paure, ma allo stesso tempo può diventare il motore per essere liberi e cercare di svincolarsi da queste paure, per andare invece incontro al futuro, immaginando come questo possa delinearsi davanti a noi.
Questa stessa fragilità appartiene anche a noi, alla nostra professione. Dunque è necessario ritrovare il senso del progetto, del territorio e della città oggi, attraverso una rilegittimazione del progetto e del nostro fare architettura.
In questo senso il paesaggio, che ha diverse accezioni appunto nel suo modo di essere visto oggi, per quanto riguarda il racconto che vi voglio fare, non è quell’elemento da proteggere, non è quell’elemento che in qualche modo prefigura delle risposte a quelle che sono le nostre paure: cioè noi dobbiamo proteggere e salvaguardare una risorsa che ormai è limitata e quindi dobbiamo trovare gli strumenti per la protezione di questa risorsa. No! Quello che invece mi piace pensare è che invece il paesaggio possa e debba essere il luogo dell’immaginazione di scenari che vedono il progetto al centro, e solo attraverso il progetto riscattare il paesaggio dalle paure che rischiano di renderlo vincolato ad un approccio unicamente protezionista.
Siccome siamo partiti stamattina con le metafore legate ai grandi film da Kubrick e poi c’è stato Amos Gitai e diversi altri protagonisti, mi piaceva proseguire questa metafora dell’immaginario cinematografico facendo riferimento ad un film che credo molti di voi abbiano visto, che è Stalker di Tarkovskij, un film che ha qualche anno ma il cui significato credo sia ancora estremamente attuale. Lo Stalker di Tarkovskij è una metafora: una metafora della vita, una metafora sulla bellezza e anche in qualche modo un racconto per immagini e per visioni del dialogo tra natura, una natura selvaggia, una natura che funge da sfondo a questa disorientamento dell’uomo, soprattutto nella parte iniziale del film, che poi incontra invece una dimensione labirintica, impersonificata da un’architettura costruita, un po’ diroccata, ma all’interno della quale l’uomo è il protagonista. Lo stalker va a ricercare la propria identità fino ad arrivare al punto di approdo di questo percorso, di questa ricerca, che è la Zona che è il luogo dei desideri, il luogo in cui dare forma a quelle che sono la nostra immaginazione, la nostra visione verso il futuro. E quindi non è il luogo della paura, ma il luogo in cui svelare la nostra fragilità, e attraverso questa fragilità riconquistare la nostra libertà. E lo Stalker dice una cosa che mi fa piacere leggervi perché riguarda proprio il rapporto tra fragilità e invece la possibilità che la riscoperta di noi stessi ci può dare nell’immaginare la bellezza, nell’immaginare il futuro. Dice lo Stalker nella Zona: “la debolezza è potenza e la forza è niente. Quando l’uomo nasce è debole e duttile quando muore è forte e rigido. Così come l’albero, mentre cresce tenero e flessibile e quando è duro e secco muore. Rigidità e forza sono compagne della morte, debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell’esistenza”.
Perché ho voluto fare questa introduzione? Perché il paesaggio, che è l’insieme dello scenario naturale, del costruito, dell’architettura e dell’urbanità, quindi ricomprende questa triplice dimensione, è di fatto forse il luogo della possibilità, deve rimanere il luogo della possibilità, dell’immaginazione verso il futuro. E riferendoci particolarmente a quella che è la nostra dimensione, la nostra dimensione italiana, in realtà abbiamo cessato di immaginare per proteggerci. E questo riguarda molti esempi dell’approccio alla progettazione del paesaggio nel nostro paese, ma visto che siamo a Roma, visto che il convegno è partito da qui, visto che il nostro studio lavora a Roma, credo che ci siano nel mondo poche città che riescono a incarnare in maniera così simbolica questa unione fortissima tra dimensione urbana e dimensione paesaggistica. E se pensiamo a Roma, e pensiamo a quello che è successo negli ultimi decenni in termini di progetto nella città, capiamo che purtroppo abbiamo dimenticato che cosa significa ragionare sul dialogo tra costruito e paesaggio, in una città come Roma in cui la presenza del paesaggio è fortissima, e che dovrebbe diventare lo stimolo e la provocazione attraverso cui costruire il progetto, mentre spesso e volentieri oggi – e lo dico anche attraverso la nostra esperienza professionale – noi ci dobbiamo confrontare con il paesaggio quasi cercando di dover dare delle risposte che sono in qualche modo obbligate dalla burocrazia, dalle norme urbanistiche, ma che non sono invece la possibilità di costruire un vero dialogo tra costruito e dimensione paesaggistica, dimensione naturale.
In questo senso faccio un’altra citazione cinematografica, avrete capito che sono una grande appassionata di cinema. Cito anche Paolo Sorrentino che all’interno de “La grande bellezza” parla di nostalgia, e dice che l’attitudine alla nostalgia è un’attitudine molto legata alla nostra incapacità di guardare il futuro. Ecco io credo che purtroppo quello che in questi anni a Roma ma in generale in Italia è successo è che la paura di guardare al futuro ci ha bloccato nella nell’impossibilità di saperlo immaginare. Invece è da qui che dobbiamo assolutamente ripartire.
In questa slide vedete un riferimento a quello che è stato uno degli ultimi grandi ragionamenti sulla trasformazione della città, in termini radicali visionari, che fu portato avanti nel 1978 da Giulio Carlo Argan con la mostra su Roma Interrotta, una mostra che coinvolse tra l’altro diversi protagonisti nostrani ma anche internazionali. Cosa diceva Argan? Diceva che Roma è una città interrotta perché si è smesso di immaginarla.
E noi dobbiamo ripartire da questa interruzione per disinnescare quei meccanismi che rendono oggi così difficile guardare avanti. Abbiamo visto nei riferimenti dei grandi progettisti, mi riferisco nello specifico anche agli ultimi paesaggisti di cui abbiamo visto adesso i progetti sia negli Stati Uniti che in Cina, e in tanti altri contesti in cui anche noi progettisti italiani ultimamente ci troviamo a confrontarci, quanto slancio, quanta volontà, comunque di ragionare anche in termini macrosistemici sul territorio ci sia, pur nella contraddizione tra isole in cui l’ambiente si trova ad essere protetto, e invece una dimensione di alta densità del costruito che lascia poco spazio alla relazione del progetto con il paesaggio. Ecco in Italia siamo in una condizione un po’ diversa.
Il contesto italiano e il territorio italiano non ha la megalopoli, non ha contesti fortemente urbanizzati, così come appunto nei paesi di cui abbiamo sentito gli interventi recentemente, ma questo può essere il presupposto proprio per ragionare su progetti che facciano dello stretto legame tra costruito e paesaggio il loro punto di partenza.
Quest’altra immagine è tratta dal film “Le mani sulla città” di Francesco Rosi, attualizzandola ad oggi, quello che mi verrebbe da dire “le manette sulla città”, proprio perché siamo imbrigliati da vincoli e da catene che sono fondamentalmente le nostre normative urbanistiche, che spesso e volentieri rendono difficili questi ragionamenti. Ma questi ragionamenti si possono e si devono fare.
Ci sono degli esempi in Europa, soprattutto in Francia, a livello di legislazione urbanistica, che vanno in questa direzione, cioè privilegiano l’indirizzo, la programmazione alla norma stringente, costruiscono la norma sull’indirizzo. Ecco questo potrebbe essere un punto di partenza anche per ragionare su quello che dovrebbe essere un approccio strategico e programmatico al nostro territorio da qui in avanti.
Rimanendo a Roma, in un contesto non distante da Roma, a meno di 50 km in linea retta dalla città, nella zona di Colleferro, nella splendida campagna romana, oggi nel 2020, uno degli ultimi progetti che è stato realizzato, che sicuramente hanno un valore emblematico importantissimo e su cui è impossibile distogliere lo sguardo, è uno dei numerosi centri logistici che Amazon ha realizzato sul nostro territorio.
In questi giorni sono andata ad approfondire la modalità con cui questo progetto è stato realizzato, ho letto anche la relazione paesistica, ci sono anche delle comunicazioni fatte in occasione dell’inaugurazione del centro, anche dal sindaco di Colleferro, in cui si dice che questo progetto è un orgoglio per la comunità perché è stato realizzato compatibilmente con quelli che erano i presupposti ambientali, e quindi con riferimento a tutte le norme di sostenibilità. Sicuramente questo centro rappresenta un’opportunità per il territorio all’interno del quale si è insediato, ma guardandone l’immagine è possibile capire che in realtà il legame con il paesaggio, con il contesto nel quale il centro è stato costruito, è un legame che non esiste. Questo è un centro che occupa una superficie di circa 100.000 metri quadri, ma oggi in Italia Amazon ha realizzato diverse unità di centri logistici simili a questo sul territorio, e ci sono poi una serie ulteriore di centri di stoccaggio minore, ma comunque stiamo parlando di centinaia e centinaia di migliaia di metri quadri.
Tutto questo quando all’interno del nostro paese è stata da poco approvata in Senato una legge, un ddl sulla rigenerazione urbana, che pone stringenti vincoli per quanto riguarda la conservazione dei nostri beni, la conservazione del territorio, riferita soprattutto ai contesti urbanizzati, ma probabilmente dimentica che non ha senso parlare di trasformazione urbana se non si ragiona anche sul territorio. Ecco qui ho voluto riportare un’immagine di un borgo, di uno dei tantissimi infiniti borghi che caratterizzano il nostro paese perché in realtà dentro questa immagine c’è una sintesi, una sintesi significativa tra quello che è il disegno dell’urbanità e il disegno del paesaggio, che ancora oggi, dal mio punto di vista, si può e si deve riproporre, ovviamente con modalità e con linguaggi che sono cambiati, che devono essere riferiti alla nostra sensibilità odierna, contemporanea, ma che ancora oggi meritano di essere presi a modelli per quella che è la possibilità, oggi come italiani, come progettisti, anche come rete che coinvolge la politica, di proporre dei modelli che possono essere una risposta alternativa ad un consumo di territorio selvaggio. In questo senso per esempio se pensiamo al Bauhaus Europeo, alla politica della Von der Leyen per il Next Generation EU, la qualità del costruito, la qualità nella costruzione, delle relazioni tra costruito ed ambiente, diventa finalmente, insieme alla attenzione alla sostenibilità ambientale, uno degli elementi fondamentali con cui costruire un’alternativa di futuro possibile nella visione che riguarda i nostri territori.
Concludo con un riferimento a quella che è la nostra poetica, facendovi vedere due progetti che in questo momento stiamo realizzando in Italia. Sono due progetti molto diversi, anche in due contesti molto diversi. Uno in un contesto urbano, anche se siamo nella periferia di Milano, a San Donato Milanese e l’altro invece in un territorio fondamentalmente agricolo.
Il primo progetto è un concorso che abbiamo vinto nel 2012, ed è un progetto che riguarda la sede del Nuovo Cortereni, un centro direzionale che è la Metanopoli voluta da Enrico Mattei negli anni ‘50. Ancora una volta quindi torniamo all’idea della visione, una visione sul territorio che integra costruito e ambiente naturale, e che partì proprio da Enrico Mattei diversi decenni fa, e che ancora oggi si sostanzia attraverso la costruzione delle Torri direzionali di ENI e, secondo l’obiettivo del concorso, questo insieme di Torri, per un complesso di circa 60.000 metri quadri, doveva proprio continuare il dialogo tra la città e l’ambiente costruito. Nello specifico il nostro progetto elimina l’idea di torri autoreferenziali, chiuse in stesse, proponendo di costruire una grande architettura paesaggio, che dialoghi con il territorio ed anche con l’urbanità attraverso la costruzione di una grande piazza centrale che diventa il luogo delle relazioni della comunità di circa 4.000 persone che andrà a occupare questo centro direzionale.
Oggi si è parlato molto del tema della comunità, ed è un tema su cui il nostro studio all’interno dei propri progetti cerca di riflettere da diversi anni, proprio nella volontà di far sentire l’individuo che abita lo spazio – sia esso un luogo di lavoro o spazio per la residenza – parte di un sistema, un sistema fatto di relazioni appunto tra spazi pubblici e volumi edilizi. Questo tipo di approccio poi ha diverse modalità di declinazioni a seconda di quelli che sono i progetti: in questo caso le volumetrie erano comunque importanti, ma la presenza del vuoto e l’idea di un’architettura che dialoga con le forme del paesaggio, ha riscattato in qualche modo questo progetto dall’imporsi sul territorio in maniera più radicale. Ovviamente è un progetto che segue e che rispetta degli obiettivi di risparmio energetico, di sostenibilità, certificato Leed Gold, però, appunto come dicevamo alle premesse, sostenibilità non significa solo rispetto di quelli che sono i requisiti ambientali, ma significa saper costruire delle relazioni con il contesto, con il territorio.
L’abbiamo fatto anche in questo progetto, di cui abbiamo realizzato recentemente la prima fase di costruzione, che vi farò vedere ora e che si trova all’interno di un territorio molto bello che è quello delle Langhe. Siamo in Piemonte, vicino a Cherasco. Qui si tratta sempre di una sede aziendale, un campus, all’interno del quale trovano spazio anche un insieme di altri spazi di lavoro e di vita, che coinvolgono oltre alla sede di questa azienda, anche le realtà emergenti sul territorio nella logica del coworking e della comunità collaborativa; tema che sta prendendo piede in Italia, e che abbiamo cercato di declinare attraverso la costruzione di un campus, con funzioni sia private che pubbliche; ad esempio un grande centro conferenze, un teatro all’aperto e un insieme di spazi aperti alla comunità, con un grande parco e piste ciclabili che connettono questo centro al centro di Cherasco e di Bra, che sono le due realtà urbane locali. Vogliamo che questo complesso vada a costruire un’idea di comunità, che crei un impatto positivo sul territorio, che possa essere replicabile in un’area oggi prevalentemente agricola e quindi fondamentalmente orizzontale, con un territorio che di per sé non ha ancora una connotazione di dialogo con un tessuto urbanizzato consolidato.
Se prima parlavamo della visione di Enrico Mattei, Metanopoli, in questo caso, per un progetto sicuramente minore ma dal forte impatto sul territorio, il committente ha una grande visione sull’idea di comunità, molto simile all’approccio che ebbe Adriano Olivetti, anche se a scale decisamente diverse; ragionare dunque sul legame tra la fabbrica e il territorio.
In questo caso, la cosa interessante è che proprio dal privato, dall’idea e dalla visione di un committente privato, può determinarsi un approccio al territorio in cui la natura e l’ambiente, ancora non antropizzato, possa entrare fortemente nel progetto e costruirne un’identità forte. Oggi siamo al completamento di questo primo step che riguarda proprio la costruzione degli start-up che si realizzeranno sul territorio e successivamente verrà realizzata la sede. Anche questo sarà un progetto certificato Leed. In questo caso anche la Certificazione Well è stata scelta dal committente, per raccontare l’attenzione alla sostenibilità per quanto riguarda la qualità di vita e di lavoro dei dipendenti e dei collaboratori, considerati a tutti gli effetti come parte della loro comunità. Vi ringrazio.
Flavio Trinca: Grazie Susanna, complimenti per i progetti. Vorrei ricollegarmi alla tua “provocazione” iniziale, in cui hai sostituito il termine ambiente con il termine paesaggio: mi trovo perfettamente d’accordo perché troppo spesso l’ambiente è un termine che si lega all’idea di protezione, di salvaguardia, mentre anche per me il paesaggio comporta il progetto.
Il paesaggio non esiste senza l’apporto antropico, senza la presenza umana. Il paesaggio è l’insieme degli elementi sensibili che si trovano sul territorio ed è definito dal progetto, che poi sia un progetto cosciente, razionale, oppure un progetto stratificato nel tempo, comunque c’è sempre dietro un progetto, un’idea, un progetto culturale, un progetto identitario.
Altra cosa che mi ha favorevolmente impressionato del vostro lavoro, è questa attenzione nel provare a costruire paesaggi attraverso l’architettura, questa mattina ne abbiamo parlato nella terza sessione. Esistono vari modi di costruire che si relazionano col paesaggio, ma a mio avviso quelli più interessanti sono quelli che tendono a costruirlo il paesaggio. Abbiamo infatti fatto l’esempio della famosa Villa di Curzio Malaparte a Capri, ma anche ad esempio le Terme di Bonifacio di Luigi Moretti.
Presento l’ultimo ospite della giornata, il nostro collega Mosè Ricci, professore ordinario di urbanistica e progettazione architettonica all’Università di Trento. Dal 2019 è distaccato presso l’accademia dei Lincei, l’Accademia Italiana delle Scienze, qui a Roma. È anche docente di master alla Sapienza e dal 2003 benemerito della Repubblica Italiana per l’arte e la cultura. Dal 2001 è membro del Board Advisor del Padiglione Italia alla Biennale di Architettura di Venezia, cui ha partecipato come progettista in diverse edizioni. È inoltre curatore della collana Amabel ed ha pubblicato numerosi scritti sull’architettura, l’urbanistica e il paesaggio, tra cui citiamo “Habitat 5.0“ nel 2019, “Nuovi paradigmi” nel 2012, “UniverCity” nel 2010, “Eyes space” nel 2008 e “Rischio paesaggio” nel 2003. Ha sviluppato progetti professionali e di concorso che hanno ricevuto numerosi premi in Italia e all’estero. Il suo intervento si intitola “Abitare la terra 5.0”.
Mosè Ricci
Grazie per la generosa presentazione, grazie a tutti.
Abitare la Terra direi che è l’azione contemporanea di tre fattori decisivi, che sono la crisi economica che ci coinvolge, i cambiamenti climatici, su cui non mi dilungo perché ne avete già ampiamente dibattuto, e la rivoluzione digitale, l’informazione condivisa che sta cambiando così profondamente il nostro modo di vivere e anche il nostro desiderio di come abitare.
Ci siamo resi conto che abbiamo distrutto troppo, ci siamo messi in cattive condizioni, ma soprattutto abbiamo voglia, proiettiamo questo desiderio di abitare in modo differente, soprattutto noi architetti nella nostra professione. Come possiamo cambiare i paradigmi del progetto, per riuscire a concepire dispositivi architettonici, spaziali, paesaggistici, che rendano le città più felici, più belle e più sane – una cosa molto banale ma che è poi il nostro compito.
La pandemia ha esaltato questa congiuntura creata dalla crisi economica energetica e ci ha fatto capire quanto malamente stessimo abitando la terra. In tutto il mondo occidentale sono state diffuse mappe come questa che vi mostro, che dimostrano che l’area pandemica coincide con le aree a più alta intensità di flussi, con le aree metropolitane.
Ma secondo me, un’altra cosa che ha fatto la Pandemia, è che ci ha fatto imparare a utilizzare questi mezzi dell’informazione condivisa, della rivoluzione digitale. Ci ha proiettato all’interno della più grande rivoluzione tecnologica che probabilmente ci sia mai stata; ci ha fatto capire che questa è così importante da darci la possibilità anche in uno stato di confinamento di fare convegni. Questo è il primo convegno che faccio in presenza da più di un anno, l’ultima volta ero a New York – vicino l’High Line che James Corner ci ha fatto vedere.
Ecco direi che abbiamo capito che il digitale ci cambia la vita. Il digital divide è diventato parte nella transizione ecologica, l’abbattimento del digital divide ci cambia la vita, non tanto e non solo perché come ci ha mostrato prima Irene dello studio di Mario Cucinella, ci dà la possibilità di fare in maniera molto più sofisticata, raffinata e veloce cose che facevamo pure prima però con più complicazioni, ma soprattutto perché cambia secondo me tre concetti fondamentali. Il concetto di tempo, il concetto di spazio e il concetto di senso. In che modo.
Noi siamo cresciuti tutti nella modernità, abbiamo imparato, abbiamo studiato, tranne i più giovani che ci stanno ascoltando, alla scuola della modernità dove il Genius Loci e il Genius Secoli coincidevano, cioè si proiettava nei progetti dello spazio fisico l’ideale della vita futura. Addirittura Mies faceva un tempio ma non lo faceva come un tempio. Lo faceva come una casa di vetro, perfetta, moderna, bellissima, addirittura nella modernità, dai futuristi italiani a Bel Geddes, questo architetto americano che ha inventato la mostra Futurama che andava a New York, ma in molte altre città americane, dove si vedeva quanto bella sarebbe stata l’America all’epoca delle macchine, dei motori della velocità. Ecco, tutto questo adesso non c’è più! Noi possiamo fare qualsiasi cosa in qualsiasi luogo, tranne azioni fortemente specializzate e non sentiamo soprattutto più il bisogno di proiettare l’immagine del futuro nelle immagini della realtà solida che noi creiamo attraverso i progetti. Questo è un progetto di Big nel 2011, che è uguale a uno di Francesco Dolza, costruito sessanta anni prima. Questa è la casa di Passarelli a Roma sulle mura e “il grattacielo più bello del mondo” di Stefano Boeri ha lo stesso concetto. Ma questo non è un male. E così l’Expo di Milano e l’Expo di Roma. Se guardate la planimetria è sorprendente, sono all’incirca alla stessa scala. Ecco la moda, Balenciaga presenta un abito nel 2017 che è lo stesso abito del 1959, anche gli abiti si abitano! Diciamo che si chiamano apposta così, solamente è cambiato nelle scarpe, nel decoro del tessuto eccetera. Quel che voglio dire è che il tempo con la rivoluzione digitale, che ha moltiplicato le possibilità di azioni, è diventato doppio, triplo, quadruplo. Noi viviamo in tempi differenti un tempo velocissimo, che è quello per il digitale ed un tempo che è quasi fermo, che è quello per il cambiamento dello spazio solido, che anzi ci fa innamorare della comodità che lo spazio esistente certe volte ci regala. Ma soprattutto ci toglie la necessità di inventare forme nuove perché tanto possiamo farne migliaia nella rete e comunque non c’è questo bisogno perché le forme sono già esuberanti. Questa è un’altra questione.
Cosa è successo allo spazio, anche lo spazio è cambiato profondamente. È cambiata profondamente l’idea che noi abbiamo dello spazio, perché intanto lo spazio si svuota. La rivoluzione digitale svuota gli spazi. Possiamo fare tutto quello che ci pare da dovunque, possiamo riunirci virtualmente su zoom, non abbiamo bisogno delle sale congressi, e possiamo comprare su Amazon e non abbiamo bisogno dei negozi, potrei andare avanti e tutti sanno come, ma soprattutto tutti sappiamo quanto abbandonate siano le nostre città, le nostre metropoli i nostri negozi. Fare una passeggiata per Roma adesso, mi ricordo anche per New York a marzo dell’anno scorso, era desolante, cioè il numero dei negozi vuoti è sempre alto, il numero delle attività, degli uffici che si sono trasferiti in sede virtuale è sempre più grande, mentre in Europa, nel mondo occidentale, dal 1999 al 2012-13, e poi ancora fino a adesso, abbiamo costruito circa 300 milioni di metri cubi l’anno. Cioè una città come Roma ogni anno sul nostro territorio nazionale, senza aumento di popolazione. È vero, come Corner ci faceva vedere prima, che si abita sempre più nelle città, però è anche vero che ormai le città sono dappertutto e sono soprattutto vuote. In Italia abbiamo fatto una grande ricerca universitaria, calcoliamo di avere circa 9 milioni di case vuote. Il Lazio è una delle regioni scatola vuota di questa mappa dove il vuoto è più profondo, ma la stessa cosa è vicino a Madrid a Sesegna, una città per trecentomila persone, completamente nuova e completamente invenduta, oppure nell’autostrada Brescia-Milano, quella nuova che nessuno la fa perché ce n’è un’altra che già fa la stessa funzione.
Il secondo effetto della rivoluzione digitale è che lo spazio è incidentale. Lo incontriamo per caso o lo costruiamo anche virtualmente. Ci sono delle bellissime esperienze spaziali al Foro Romano che si fanno con i suoni, con i racconti e con le luci senza bisogno dello spazio fisico vero.
Detroit, che è la madre delle metropoli industriali, è stata completamente abbandonata, la storia la sapete tutti, e adesso è un grande parco archeologico, una specie di Pompei americana, che presenta molti aspetti affascinanti anche di innovazione, che sono stati ben esplorati dagli studiosi.
Ma anche in questa condizione di progressivo abbandono, la natura si riappropria degli spazi e una casa può diventare un albero, una città può diventare un parco archeologico vissuto abitato in qualche modo. Insomma, il paradigma principale della modernità Form Follows Function di Sullivan a Chicago, la forma segue la funzione – che poi Venturi in una conferenza all’Ohio State University del 2003 trasforma in Form Accomodates Funtions– non esiste più. Non c’è più necessità di legame stretto tra usi e luoghi. E tutto ciò – la rivoluzione, l’emergenza ambientale, le cose che abbiamo detto – mette profondamente in crisi la nostra disciplina, che deve in qualche modo curare le città che si sono ammalate per effetto dei grandi cambiamenti climatici, che deve fronteggiare una situazione di spazio costruito esuberante nelle città del mondo occidentale ma anche nel far east, anche in Cina sicuramente, e che deve comunque considerare l’esistente come il suo materiale da costruzione. Non possiamo fare altro che lavorare su quello che c’è già, cercando di abitarlo, di riaccompagnarlo alla natura, di inventarci un uso anche temporaneo che si permetta di non pagarne le conseguenze.
Allora propongo tre dicotomie, tre paradigmi nel senso di Thomas Cook, punti di vista sul futuro e sono realizzati da tre dicotomie.
Performance versus Function, cioè la prestazione contro la funzione. Abbandoniamo la voglia di funzionalizzare gli spazi, ma questo vuol dire addio allo zoning nei piani regolatori, addio agli edifici specializzati in grande parte – sto volutamente facendo una provocazione – e preoccupiamoci solo della prestazione che loro danno. Anche gli spazi urbani. C’è il grande piano di Barcellona Manuel Gausa che riprende il GATCPAC di Le Corbusier di trasformazione della griglia barcellonese in una maglia 6 x 6 e della rigenerazione degli spazi interni come spazi verdi, c’è il progetto di Freschkills che è di Field Operations che è un progetto di prestazioni e di programmazione di prestazioni di paesaggio ambientali attraverso il Landscape Urbanism, c’è il progetto di Agropolis Munchen che è il nuovo piano regolatore di Monaco, concorso vinto nel 2008, e che prevede di ricominciare gradualmente a coltivare il cibo per sfamare i bavaresi a Monaco. E ci sono anche i nostri studi per il piano di Trento, fatto con il comune di Trento e con l’università, che si basa su sfide e non obiettivi e che è un piano metabolico, un piano dove non si raggiunge un risultato previsto, ma ogni giorno si combatte una battaglia, che è prevalentemente a matrice ecologica, ma anche per l’accoglienza sociale, per abbattere il digital divide, per la accessibilità urbana e per la bellezza. O anche il piano di Lecce, una città che cresceva, “a uovo fritto”, e che adesso stiamo cercando, sempre con l’università, di trasformare in una “costellazione ecologica”.
Seconda dicotomia, Sharing versus Partecipating, cioè la condivisione invece della partecipazione.
Siamo tutti cresciuti a pane e partecipazione, è diventata una pratica obbligatoria, ma in realtà non abbiamo mai capito bene che cos’è se non il modo di convincere gli altri che abbiamo ragione. Invece la rete ci permette di condividere di lavorare in open source. C’è un progetto del 1991 di Martin Margiela, che è un famoso designer di moda belga di tanti anni fa, che fa un maglione con delle calze, incollando dei calzini bianchi tra di loro, si chiama les pull chausette. Ma la cosa interessante è quello che lui vende che è il manuale per farlo, dove ciascuno diventa autore del suo pull chausette, dei suoi calzini quelli già usati, quelli nuovi, quelli colorati etc. E allora chi è l’autore? Qual è l’autorialità? Il fruitore del progetto partecipa direttamente al risultato finale diventando in qualche modo coautore. Alfredo Brillembourg che saluto – ci conosciamo da 40 anni – ha fatto questo bellissimo studio sulla torre David a Caracas, ma tanti sono gli esempi di progetti che coinvolgono le popolazioni locali nel risultato finale.
L’ultima dicotomia è quella della narrativa verso la descrizione. Noi siamo stati abituati a descrivere, descrivere attraverso i nostri progetti, fare un’analisi, stabilire i criteri e i parametri, ma la rete ormai ci offre tutte le descrizioni del mondo, anche diversissime tra loro e basta scegliere. Forse la cosa importante è che i progetti assumano senso, raccontino una storia, facciano qualcosa. Noi in un progetto che abbiamo fatto a Lanciano qualche anno fa, con Orazio Carpenzano e l’Università di Roma, che era un progetto di rigenerazione, il progetto di un spazio pubblico lungo un chilometro, un viale brutto e squallido che univa la città al suo galoppatoio, ma che era diventato negli anni il luogo commerciale, senza nessuna identità, di questa città che in realtà è meravigliosa nella sua pianta storica. Questo viale diventava molto bello in occasione delle feste o delle fiere, ma altrimenti era il nulla.
Il nostro progetto è molto banale, è solo un dispositivo narrativo. Prende un gioiello, che è uno di quelli che le donne indossavano, che si chiama la presentosa, gioiello abruzzese che la mamma dello sposo dona alla sposa, che non è di quella regione, per stimolare il suo senso di appartenenza al territorio. Abbiamo preso questo gioiello, l’abbiamo fatto diventare un tappeto, un pizzo, una calza di pizzo lunga 1 km, e quello che è stato sorprendente, che noi pensavamo fosse un’azione banale per innescare un disegno, una qualità accettabile in questo spazio pubblico; invece è diventato così popolare che non so quanti siano i gruppi Facebook dedicati alla più bella strada del mondo, perché quello che è scattato è questo senso di appartenenza, questa idea di coinvolgere in fondo la società locale nel sentire proprio uno spazio pubblico.
Io credo che la condivisione, o l’azione sociale, quello che spiegava benissimo Brillembourg nel suo intervento nella sessione precedente, narrazione e quello che avevo detto all’inizio la prestazione, sono i tre paradigmi che noi possiamo seguire nel lavoro sull’esistente. E nel lavorare sulla base ad un criterio ecologico, un criterio che ci consenta di abitare meglio, in maniera più comoda, più felice soprattutto questa terra. Il paradigma ecologico da solo non garantisce la qualità del progetto, la bellezza, o la felicità, tuttavia comprendiamo tutti che si tratta di un punto indispensabile per generare dei progetti che tentano di curare questo nostro territorio.
Adesso mi sto occupando moltissimo anche di Mediterraneo per una ricerca all’Accademia dei Lincei, io credo che il Mediterraneo sia un posto da cui noi di questa parte del mondo, ma forse tutto il mondo perché poi ci sono moltissimi mediterranei nel mondo, possiamo imparare la capacità di essere adattivi all’organizzazione sociale basata sul rapporto diretto e confidenziale e anche personale tra le persone. La sua forma, il suo paesaggio se volete, sono basati sulla narrativa.
Io penso che noi architetti, quantomeno per tre generazioni, dobbiamo assumere un ruolo politico radicale. Rifiutare, dico una cosa forte, la costruzione del nuovo, come manifesto, e cercare di lavorare solamente con la città esistente come materiale di costruzione e con il Mediterraneo come manuale. Grazie.
Flavio Trinca: Ringrazio Mosé Ricci per questa immagine finale del Mediterraneo, abbiamo iniziato, la terza sessione con un’immagine del Mediterraneo, Ulisse che dalla terrazza della Villa Malaparte si affacciava sul Mediterraneo davanti a Capri e qui siamo su un’isola greca. Ma soprattutto il mediterraneo è il luogo della contaminazione, è il luogo dell’incontro, dello scontro, anche della partecipazione e della collaborazione.
Mosè Ricci: Si quella era Patmos. Il Mediterraneo è una grande madre ma è anche un grande manuale. È il primo sistema abitativo che si è sempre adattato al clima, che ha sempre accolto i cambiamenti, che ha avuto sempre regole e la possibilità di tradirle. Una ricerca che ho proposto all’Accademia Nazionale delle Scienze, questa sul Mediterraneo, si chiama Made West, derive del Mediterraneo, è stata la prima volta che all’unanimità hanno votato per scegliere una ricerca proposta da un architetto, è così inafferrabile apparentemente da un punto di vista scientifico, ma invece secondo me non lo è.
Flavio Trinca: Sono convintissimo che stai lavorando nel giusto. Hai messo in ballo veramente talmente tante cose che mi sono anche dimenticato cosa ti volevo dire, però gli spunti di riflessione sono veramente molti. Mi sembra interessante soprattutto il fatto che hai spostato l’attenzione della sostenibilità verso il digitale. Perché la sostenibilità non è solo quella ambientale, ma anche quella sociale: quindi i rapporti, le interrelazioni che ci sono tra le persone, tra gli uomini, tra le genti, tra i popoli che oggi avvengono principalmente attraverso lo strumento digitale.
È una cosa che mi fa sempre arrabbiare quando sento che parlano dei migranti che arrivano e dicono “eh, ma hanno il telefonino” e non capiscono che è l’unico modo, l’unica possibilità che hanno per rimanere in contatto con la propria terra, con la propria gente, con la propria famiglia. Oggi un telefonino, indipendentemente da quello che lo paghiamo noi, è uno strumento alla portata di tutti, però è anche lo strumento con cui tutti comunichiamo, progettiamo.
Mosè Ricci: C’è un bellissimo libro di Brynjoffson e McAfee, che sono due giovani economisti del MIT, che si chiama “La nuova rivoluzione delle macchine”, che ci fa capire una grande rivoluzione tecnologica, come è stato alla fine dell’Ottocento, prima l’urbanistica non esisteva è stata creata allora, non esisteva il cemento armato, e sappiamo tutti cosa è successo, dopo la rivoluzione delle macchine nell’Ottocento. Questa seconda rivoluzione delle macchine per l’informazione condivisa vogliamo che non provochi dei cambiamenti profondissimi nel nostro modo di pensare, di desiderare il futuro, di valutare il bello, di fare la professione, di fare il progetto(…)è chiaro che questo cambia tutto e penso che dobbiamo cominciare ad accorgercene.
Flavio Trinca: Quindi vorrei approfittare del tempo che ancora ci rimane per innescare un confronto tra di voi. Secondo me questa quinta sessione ha stimolato veramente tante suggestioni e soprattutto tante prospettive diverse. James Corner e Kongjian Yu, ma anche Irene Giglio ci hanno raccontato la possibilità di fare in maniera differente, di procedere, di avere ancora entusiasmi rispetto a quella stanchezza professionale che c’è nel nostro paese e dall’altro lato mi sembra che sia gli interventi di Susanna Tradati che di Mose Ricci ci hanno riportato un po’ anche a un ragionamento sulla teoria della nostra disciplina, sul ripensare la nostra disciplina.
Per disciplina intendo tutto il campo progettuale, non mi limito al progetto d’architettura, al progetto del paesaggio, al progetto di pianificazione, secondo me c’è dentro anche l’arte. Ripensare come dire il substrato teorico su cui fonda appunto la nostra disciplina.
Vorrei sentire cosa ne pensa Kongjian Yu. Volevo sapere se lei che è dall’altra parte del mondo, forse vede la vita e la nostra professione in maniera differente, con problemi diversi. Prima Mosè Ricci diceva che le nostre città sono vuote mentre invece le vostre sono piene. Come affrontate anche voi questi ragionamenti.
Kongjiang Yu: Ci sono dei problemi che sicuramente condividiamo con voi. Per esempio avete delle antichità e anche noi ce l’abbiamo. Negli ultimi quarant’anni noi abbiamo dato vita a un processo di costruzione sfrenato, quindi le nostre città sono troppo costruite, c’è un processo di overbuilding che caratterizza le nostre città, come probabilmente caratterizza anche le vostre. È un processo che è fortemente in atto, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. In molti luoghi del territorio cinese occidentale abbiamo molte città vuote, abbiamo costruito troppe case, abbiamo costruito troppa infrastruttura, abbiamo utilizzato troppo cemento, canalizzando i fiumi abbiamo danneggiato la natura. Quindi in questo momento credo che la nostra professione debba pensare a modificare il modello su cui basa i propri interventi, deve sviluppare dei nuovi modelli, deve rivoluzionare la propria attività introducendo delle nuove forme e delle nuove conoscenze e soprattutto un nuovo linguaggio per rivalutare ciò che è stato fatto ciò che può essere fatto.
È anche in ballo una questione che ha a che vedere con la civiltà. L’ultimo speaker ci ha parlato della civiltà, ma una civiltà che non significa più cemento, più costruzione, più infrastruttura. E questo è ciò che ha comportato l’industrializzazione di fatto.
Ora si deve produrre un cambiamento, abbiamo bisogno di soluzioni che si basino sulla natura, dobbiamo dipendere dalla natura, perché nella realtà dei fatti dipendiamo dalla natura.
Dobbiamo sviluppare un nuovo linguaggio progettuale, guardare al passato, alla tradizione del passato e a ciò che gli antichi e chi ci ha preceduto hanno da insegnarci. Questo è il mio pensiero a riguardo, dobbiamo quindi ripensare la nostra professione.
Daniela Gualdi: Kongjiang Yu, il tuo pensiero mi sembra riassuma molto bene il senso di tutta questa grande giornata di lavoro e anche degli interventi della sessione precedente. Il lavoro che abbiamo visto, nelle parti più povere del mondo, che non possiamo pensare di dimenticare, è quindi il motivo per cui noi abbiamo scelto la parola ambiente oltre alla parola paesaggio; penso che le parole ambiente, città e paesaggio, soltanto se messe insieme, saranno capaci di viaggiare nel futuro.
Flavio Trinca: Ho una piccola osservazione, una annotazione per il professor Kongjiang Yu. Ho visto proprio ieri un servizio in televisione che parlava della grande crisi del Bike Sharing in Cina. Questo strumento che da noi occidentali viene visto come una risorsa ecologica perché consente mobilità differente rispetto a quella a cui siamo abituati, li è diventato un problema ecologico: hanno centinaia di migliaia, milioni di biciclette di queste società di Bike Sharing, che erano sovradimensionate esattamente come le nostre case, che non sanno come smaltire, cioè hanno un problema di inquinamento da biciclette. Volevo sapere cosa mi poteva dire in proposito Kongjiang Yu.
Kongjian Yu: Noi abbiamo seguito la modernizzazione, abbiamo subito il modello offerto dagli Stati Uniti, dall’Italia, dalla Germania. Tutti si sono comprati una macchina, tutti hanno una macchina. La macchina è il simbolo della civiltà, la macchina significa che si è ricchi o che si è benestanti, ma questo è un concetto sbagliato, che erroneamente abbiamo seguito. Quindi la definizione della civiltà significa utilizzare più energia, utilizzare delle case, degli edifici che sono più costosi, vuol dire costruire strade sempre più grandi, edifici sempre più grandi… tutto ciò è sbagliato!
La Cina in questo momento sta cooperando con gli Stati Uniti per ridurre le emissioni di carbonio. Ecco perché abbiamo bisogno di nuove idee e soprattutto di una nuova definizione di civiltà. La civiltà oggi significa essere in grado di utilizzare meno energia, meno materiali costruttivi, la capacità di camminare per raggiungere il posto di lavoro, la bicicletta è un simbolo di civiltà. Per quaranta anni i cinesi hanno pensato che le macchine fossero più importanti delle biciclette. Poi tutto questo è cambiato, questa visione è cambiata, e la bicicletta ha assunto un ruolo sempre più importante, e questo dovrebbe succedere un po’ ovunque nel mondo. Ci deve essere un coinvolgimento sociale, un movimento sociale che coinvolga le persone, affinché le persone comprendano che un edificio come quello che è alle mie spalle, un muro verde come quello che è alle mie spalle è rappresentativo di una civiltà migliore. Non abbiamo bisogno di edifici in vetro, edifici in cemento e in acciaio abbiamo bisogno di altro: abbiamo bisogno della natura.
L’infrastruttura che ci circonda deve modificarsi totalmente, quella sociale, quella intellettuale… non parlo solamente di quella fisica. Ci deve essere una rivoluzione anche per iscritto, per così dire, nella letteratura. C’è bisogno di un nuovo sistema di codifica, di sistemi di codifica che sappiano radunare assieme le diverse conoscenze che abbiamo a disposizione, creando un’enorme infrastruttura sociale. Se vogliamo ridurre le emissioni di carbonio e risolvere i problemi causati dal mutamento climatico, abbiamo bisogno di una vera rivoluzione dell’intero sistema, soprattutto quello intellettuale, perlomeno partire da quella. Questa è la mia idea, ecco perché prima ho parlato della rivoluzione Big feet, la nostra professione credo abbia bisogno di una rivoluzione del genere.
È un piacere vedere James Corner, non ho ascoltato tutta la conferenza, ma penso che tu sia un visionario, hai realizzato qualcosa di eccezionale qui in Cina, penso che il mondo debba imparare dai progetti che avete realizzato e dai messaggi che cercate di esprimere. Grazie veramente!
Flavio Trinca: C’è questa stranissima e surreale situazione, James Corner che, nell’ambito del convegno, parla da New York con Kongjian Yu, collegato da Cina.
Forse con questa situazione metafisica finale possiamo chiudere questa giornata.
Daniela Gualdi: Grazie a tutti voi che siete rimasti fin qui, dobbiamo chiudere conun ringraziamento alle tante persone che hanno collaborato con noi alla riuscita di questa giornata; si è trattato di un omaggio alla Giornata Mondiale Della Terra, in questa lunga diretta con voi, alla quale hanno preso parte affascinanti, intelligenti progettisti e artisti da mezzo mondo.
Con Flavio abbiamo lavorato almeno due o tre mesi alla preparazione di questo convegno, non possiamo che ringraziare l’Ordine degli Architetti di Roma, il Presidente, il Vicepresidente Christian Rocchi che questa mattina ha aperto i lavori, un ringraziamento personale al Consigliere Antonio Marco Alcaro che ha creduto molto in questo progetto. Un ringraziamento al Presidente della Casa dell’Architettura, Luca Ribichini, che ha presentato la sessione pomeridiana, a Marcello Rossi dell’Ordine degli Architetti di Milano che è stato a casa dello storico dell’arte Flavio Caroli.
Grazie a tutte le persone che hanno collaborato con noi: Cristina Morselli della segreteria della Presidenza dell’Ordine degli Architetti di Roma, il gruppo della comunicazione con Paola Pierotti, Silvia Zingaropoli, Francesco Nariello, Giulia Villani e Giuseppe Felici. Valentina Moriconi e Francesca Agnani le nostre interpreti, Alessio per la grafica, Maurizio Cesana per la diretta video e il montaggio di tutti i filmati, Daniele, Giulio, Emanuele e Gianpaolo della DeSatech per la regia in sala. Il MAXXI architettura di Roma, l’Archivio Basilico, Moreno Maggi, il Comune di Fiuggi, la Jiliang University of China, Emiliano Conti, l’architetto Pasquale Fanelli per le immagini della terza sessione. Grazie anche al supporto dell’AIAPP e del Festival CinemAmbiente di Torino e a Nives Barranca della segreteria organizzativa dell’evento.
_________________________________
________________________________
Visual Editing:
Giuseppe Felici, Redazione AR Web
– Nell’immagine di copertina: Cueva de las Manos (Caverna delle Mani), Perito Moreno, Argentina