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21 Luglio 2022

“Dalla mia terra alla terra”. L’Antropocene: l’impronta ecologica delle attività umane

Atti del Convegno “Abitare la Terra” A cura di Daniela Gualdi e Flavio Trinca

Si ringraziano gli ospiti intervenuti per la preziosa partecipazione.

Si ringraziano Simona De Sanctis, Antonietta Salustri e Laura Tondi per il contributo alla trascrizione degli atti.

II SESSIONE

Si informano i lettori di AR Web che saranno presto pubblicate anche le altre sessioni del convegno.

Daniela Gualdi

Presento i nostri ospiti: Amos Gitai, regista e scrittore, Juliano Ribeiro Salgado, regista e scrittore, Andrea Elia Zanini per la Fondazione Gabriele Basilico, Gaetano Capizzi Presidente del Festival CinemAmbiente di Torino.

Abbiamo parlato dell’“Alba dell’uomo”, dell’origine dell’abitare umano; fare un passaggio con voi grandi artisti del cinema e della fotografia per proseguire questo lavoro dell’uomo che abita la terra, lo spazio, è molto complesso. Ci proveremo, con il vostro contributo e la vostra arte. Cercheremo di comprendere con voi questo fenomeno delle rapide trasformazioni in atto nel pianeta e della condizione umana contemporanea, colpita da sconvolgimenti economici, sociali, politici narrati attraverso l’arte del cinema e della fotografia.

Introduco questa sessione di lavoro con la scena finale della trilogia “House” Bayit, di Amos Gitai girata tra il 1980 e il 2005, perché è la rappresentazione della storia recente di due popoli, quello israeliano e quello palestinese, narrato attraverso le vicende di una casa araba a Gerusalemme. Al termine di questo bellissimo film, un bel volto di donna ci racconta la possibilità di un’altra storia e di un futuro diverso.

Amos Gitai è un grande regista, sceneggiatore e produttore cinematografico israeliano, che dai suoi primi documentari ha sempre coniugato allo spirito critico ed indipendente – un grande fare poetico, per narrare la travagliata condizione umana e politica della sua terra, arrivando a dover lasciare il suo paese; Amos Gitai si trasferisce dapprima negli Stati Uniti, dove conclude gli studi di architettura iniziati ad Haifa, per poi spostarsi a Parigi. Superfluo citare la sua ampia e nota filmografia di quasi trent’anni di lavoro: qui soltanto ricordiamo la sua trilogia sul tema dell’esilio e dell’emigrazione[1] e, la trilogia dedicata alle città di Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme[2], scaturita dal rientro in Israele.
Infine citerei, perché ce l’ha suggerito lui, “Lullaby to my father” (2011): un viaggio alla ricerca delle relazioni tra un padre e suo figlio, tra architettura e cinema, tra vicende storiche e memorie intime.  La ricerca personale e privata, nel rapporto con la sua terra e la sua storia, diventa questione universale che riguarda, in quanto arte, tutta la realtà umana.

Partirei con la proiezione della scena finale dalla trilogia House.

Fotogramma tratto dalla sequenza finale della trilogia House di Amos Gitai

Voce fuori campo dell’autore: “Questa lunga storia della casa, che non ha più gli inquilini originari e queste raccolte di frammenti biografici mi fanno venire in mente la mia prima conversazione con Thierry. Gli riportai la storia del grande Ba’ al Shem, il grande rabbino, che raccontava una storia su una storia raccontata. Sembrava che Ba’ al Shem conoscesse un posto nel bosco, dove andare fare il fuoco, dire una preghiera, esprimere un desiderio. Così facendo al suo ritorno il problema si sarebbe risolto. La generazione seguente, il rabbino sapeva in quale punto del bosco andare, non sapeva accendere un fuoco, ma sapeva recitare la preghiera e il problema si sarebbe risolto al suo ritorno. La generazione seguente, il rabbino non sapeva più quale fosse il punto preciso del bosco. Non sapeva accendere un fuoco, ma sapeva recitare la preghiera e il problema si sarebbe risolto. Dopo un’altra generazione, il rabbino non conosceva più il punto del bosco, non sapeva accendere fuoco e non sapeva quale preghiera recitare, però sapeva raccontare la storia. Io credo che noi ci troviamo a questo punto: possiamo raccontare la storia della casa, che non ha più gli inquilini originari; la sua gente, operai ed imprenditori, si è dispersa e a noi non rimane che la storia. Mi è venuta in mente in questo ultimo viaggio che stiamo compiendo ora lungo la Valle del Giordano. Stiamo di nuovo a rimirare il tramonto, notando come i paesaggi osservino le persone che li hanno attraversati per secoli, forse quasi dal principio dell’umanità. E adesso, sullo schermo, c’è una figura femminile, un volto di donna di un’attrice. Sarà la protagonista di un altro film, di un’altra storia”

Amos Gitai

Innanzitutto vi ringrazio moltissimo per avermi invitato qui oggi, come sapete inizio sempre dicendo che sono un architetto che produce film. Io ho studiato come architetto, avrei dovuto seguire le orme di mio padre che era un architetto della Bauhaus; alla sua morte, ormai 50 anni fa, ho iniziato a studiare architettura, prima ad Haifa, poi con un dottorato di ricerca a Barkley. Mi piace molto la vostra scelta, ovvero il fatto che abbiate voluto mostrare questo estratto da “News from home”, che è un documentario che ho realizzato più di 25 anni fa. In realtà l’ho iniziato 40 anni fa, nel 1980, poi ho realizzato l’ulteriore capitolo 20 anni più tardi e l’ultimo capitolo 25 anni dopo rispetto al primo.

Il mio lavoro nell’ambito cinematografico è un po’ simile a quello dell’ambito architettonico, ho delle idee che sviluppo, ci sono delle idee che costruisco al pari dell’archeologia, delle idee che si stratificano quindi progressivamente; si cerca di riportare alla luce queste stratificazioni e vengono alla luce delle storie, contraddizioni, elementi politici, tutto questo attraverso un gesto simile a quello dell’architetto o dell’archeologo, cercando di raccogliere le contraddizioni che ci rivelano delle storie di un luogo specifico. L’opera che avete scelto è molto interessante perché termina con questa immagine di una donna che è seduta in una macchina e ci racconta una storia; la memoria e la fusione di memorie e ricordi, nonché la distruzione dei ricordi è tutto ciò che rimane, è il nostro punto di partenza necessario per poter raccontare una storia; una storia che non deve essere distrutta e che noi siamo chiamati a conservare per il futuro.


Ritengo che il lavoro del cinema è legato anche al tema della conservazione della memoria, dei ricordi, di un’ idea. In questo momento sto realizzando un film tra Italia e Israele, sto parlando di una storia del XVI secolo che ha a che vedere con la memoria, ed il cinema è molto utile perché aiuta ad aggiungere strati a questo edificio metaforico dell’architettura. Il cinema fa più o meno la stessa cosa; quello che facciamo è sederci di fronte ad uno schermo per guardare delle immagini proiettate; l’unico luogo in cui questa memoria viene registrata è la nostra mente, per poi svanire. Queste immagini svaniscono, non rimane nulla di fisico, tutto ciò che rimane è nella nostra memoria. È un ricordo che potremmo definire come virtuale, quindi già prima dell’avvento dell’era digitale, c’era di fatto una sorta di memoria virtuale. Credo che il regista debba registrare delle immagini, i migliori film che ho visto, hanno iniziato ad attivarsi nella mia mente solamente alla loro conclusione, quindi nulla di concreto, è un processo che avviene solamente nei ricordi. Non cemento, vetro o acciaio, nulla di tutto questo; la materia costitutiva è rappresentata dalla memoria e dal modo di interfacciarsi con essa come agente efficace, efficiente ed attivo del nostro cervello. Una memoria che è fondamentale per sviluppare idee; ci sono persone che ritengono che la storia evolutiva del pianeta e della società non siano mosse solo dal denaro e dalle guerre ma soprattutto dalle idee e noi siamo qui, appunto, per parlare di idee, questo è il nostro compito.

Locandina del documentario di Amos Gitai Lullaby to my Father

Poi si è parlato di un altro film che ho realizzato “Lullaby to my father”, in questo film cerco di parlare a me stesso e mi sono chiesto che cos’è stato degli anni trascorsi a studiare architettura, quei nove anni trascorsi a studiare architettura ad Haifa e a Barkley, che impatto hanno avuto quegli anni nella mia carriera cinematografica. Un po’ come gli architetti del passato, ho cercato di sviluppare una produzione cinematografica che non fosse esclusivamente intima. Con questo voglio dire che è molto importante combinare diverse discipline perché il lavoro interdisciplinare ci arricchisce; credo che i miei studi nell’ambito architettonico siano stati fondamentali per formarmi come regista; mi hanno arricchito tanto quanto lo scambio e confronto di esperienze con gli altri. È importante apprendere dalle persone con cui si lavora, è importante avere questo senso, questa idea di missione comune, sfide comuni che dobbiamo affrontare insieme alle persone con le quali collaboriamo e che insieme a noi cercano di trasmettere delle idee.

Il cinema può essere politico, può portare a disaccordi, c’è chi afferma delle idee e chi sostiene idee contrarie, ad esempio c’è chi è in favore di Rabin e non necessariamente a favore dell’attuale governo. Possono esserci dei contrasti, anche molto forti, sono indubbiamente tematiche complesse da affrontare. Tuttavia è molto importante comprendere che non dobbiamo essere degli obbedienti servitori, dobbiamo contribuire alle sfide di fronte alle quali siamo posti, ognuno a proprio modo, anche opponendosi alla corrente prevalente.
Queste sono le orme che io ho cercato di seguire, le orme di mio padre; ricordo quando mi ha portato a fare esperienza in un cantiere ad Haifa, a vedere il modo in cui l’architettura prendeva forma grazie all’opera di un gruppo di persone riunite assieme, ognuno con le proprie capacità ed i propri mezzi. Questo è quello che ho appreso e che ho cercato di trasporre anche nella mia produzione cinematografica.

Nell’epoca in cui in cui viviamo: l’architettura viene elaborata nel computer per essere venduta a qualcuno in qualche luogo, distruggendo alberi e colline, sfigurandole in nome dell’architettura. Molto spesso non esiste più il coinvolgimento degli artigiani nella fase di concezione dell’opera stessa, spesso gli artigiani non sono che dei meri esecutori e questo è un altro cambiamento importante a cui stiamo assistendo; lo stesso sta avvenendo anche nel mondo cinematografico, c’è una compartimentazione delle varie discipline.
Nel campo dell’architettura e in quello cinematografico è invece fondamentale, come accennato precedentemente, la condivisione tra tutti gli attori coinvolti; uno scambio di opinioni che è importante anche relativamente alla scenografia o nelle altre componenti di un film.
Nell’ambito architettonico il confronto è importante, anche nel momento in cui vengono definiti i materiali da utilizzare, scambi che arricchiscono e che sono fondamentali per la riuscita di un progetto. 

In questo momento ho deciso di utilizzare il mio archivio per aiutare la Biblioteca Nazionale israeliana, perché avverto un vuoto di 20 anni, noi non abbiamo più archivi cartacei, tutto ciò che abbiamo è digitale. La Biblioteca sta lavorando tutto quello che ho messo a disposizione per trasformarlo in un archivio digitale, sto parlando di 35.000 documenti a partire dall’assassinio di Yitzhak Rabin; ho ceduto questo archivio perché ritengo importante sfidare la storia cinematografica. Ho ceduto questa collezione perché è importante trasmettere anche una visione diversa rispetto a quella predominante, una visione alternativa di cui si è perso traccia. Sono elementi che devono essere messi a disposizione del pubblico, devono diventare di dominio pubblico; voglio dare al mondo intero, un’altra versione della storia, fornire una lettura diversa della storia rispetto a quella dominante. Ho fornito tutte le immagini che avevo filmato, ci sono molte scene che non sono state incluse nel film che ho realizzato e potrei anche essere accusato per questo. Credo che la generazione dei giovani sia troppo impressionata da quello che noi facciamo e attraverso questo meccanismo di prove ed errori noi cerchiamo di migliorarci nel tempo.

Relativamente ad un altro aspetto di cui hai parlato nell’introduzione, aggiungo che, quando ho deciso di realizzare un film riguardo il percorso seguito da mio padre, ero interessato alla sua carriera, al suo essere vicino alla Bauhaus. Goebbels sosteneva quanto la forma fosse politica, ovvero aveva compreso che non era più possibile accettare i progetti minimalisti della Bauhaus, bisognava imporre un’architettura diversa, come quella di Speer; un gesto molto forte che proiettasse l’uomo nello spazio architettonico, un uomo che però veniva assolutamente schiacciato come nell’architettura nazista; tutto ciò è stato possibile con la distruzione di scuole come la Bauhaus. Pensiamo anche all’arte degenerativa, nel corso del tempo si è compreso come l’architettura sia essenzialmente un gesto politico trasposto in elementi materiali.

Fotogramma tratto da Lullaby to my father di Amos Gitai

Quando mio padre aveva 25 anni purtroppo ha subito diverse violenze, è stato condotto al confine svizzero finché gli svizzeri hanno deciso di riportare gli ebrei tedeschi in Germania; io cerco di ripercorrere il tracciato della sua vita, perché l’architettura è un prodotto di percorsi: da dove proveniamo, qual è il percorso che abbiamo seguito, qual è l’eredità culturale che ci portiamo dietro, poi è riuscito a fuggire perché, se così non fosse stato, io oggi non sarei qui con voi a parlare. Gran parte degli amici della Bauhaus sono andati a New York, lui invece decise di emigrare in Francia cominciando a dedicarsi ad un’architettura di carattere sociale; è stato molto influenzato dai gruppi femministi che erano attivi in quel tempo, perché non voleva che le donne seguitassero a cucire e cucinare, aveva sviluppato idee completamente diverse ed ha cercato di trasporre queste idee anche in ambito architettonico.
Il kibbutz si compone solo di docce e di una piccola cucina, con i bambini che venivano cresciuti altrove. Questo era il modello imperante. Nei kibbutz, non era permesso l’accesso alle macchine e rappresentano un modello sperimentale unico nel suo genere in cui si è cercato di implementare nel modo dell’architettura un concetto politico. Se volete fare un tour collettivo di Israele vi prometto che vi ci porterò; voglio mostrarvi dei kibbutz che lui stesso ha progettato e che inglobano la sua visione.

C’è un punto di connessione tra l’estetica, l’architettura, le questioni e le convinzioni sociali e politiche. Gabriele Basilico, per continuare con quello che tu stavi dicendo, non è solamente un grande fotografo ma anche un eccezionale essere umano. L’ho conosciuto attraverso Richard Ingersoll, uno storico americano che ci ha messo in contatto e che purtroppo ha perso la vita qualche settimana fa, e Stefano Boeri. Volevamo produrre un libro per Electa, 25 anni dopo la morte di mio padre, 25 anni fa; ho detto a Gabriele che mi sarebbe piaciuto moltissimo averlo ospite in Israele affinché potesse scattare fotografie di alcuni degli edifici realizzati da mio padre. Gabriele ha portato con sé un assistente, abbiamo dormito insieme nella stessa casa, poi lui, piano piano, ha cominciato a fotografare questi edifici, alcuni dei quali non esistono più perché gli israeliani purtroppo non sono così bravi nella conservazione degli edifici moderni. Tuttavia alcune di queste immagini non sono state utilizzate come uno strumento pubblicitario, non era questa l’intenzione di Gabriele Basilico, a differenza di altri fotografi lui non ha voluto scattare queste foto alle 5 del mattino quando la città era deserta ripulendo queste foto e modificandole; lui ha realizzato delle foto eccezionali, che sono utili ad analizzare e a vedere l’oggetto per come effettivamente è, senza falsificazioni, mostrandoci la realtà per come effettivamente questa si presenta.

Daniela Gualdi: vorrei farti una domanda, hai detto: “una delle mie domande chiave è se l’arte possa creare uno spazio dove le persone riescano a esprimere le loro diversità e identità, cercando una strada per una convivenza pacifica”. Quanto il tuo cinema, di tutta una vita, ha cercato questa strada attraverso lo strumento del documentario.
Tu hai in comune con Gabriele Basilico e come vedremo anche con Sebastiao Salgado, l’uso del documentario che è un modo diverso di indagare la realtà, di tradurla in emozione, in forte empatia e sentimenti umani per chi guarda il vostro lavoro, per chi ascolta le vostre opere; personalmente non avevo mai fatto caso a quanto il documentario rappresenti nel cinema un approccio completamente diverso.
Tu hai fatto film-documentari sin dal primo momento e studiando in questi giorni l’opera di un grande fotografo come Gabriele Basilico e quello che di lui scrive Giovanna Calvenzi, donna della sua vita, così come guardando anche l’opera di Juliano Ribeiro Salgado che sviluppa un documentario per raccontare anche lui la storia di suo padre. Ti vorrei chiedere perché il documentario per raccontare in fondo un’emozione: ci si aspetterebbe che il documentario fosse più legato a un fatto giornalistico ad un racconto della realtà, invece attraverso il documentario tu racconti poeticamente l’uomo e le vicende umane.

Amos Gitai: non credo che le due definizioni si escludono a vicenda, noi comprendiamo le emozioni delle persone; non si tratta di un cinema in stile Michael Moore, è qualcosa che va fatto per permettere alle persone di non essere dei consumatori bensì degli interpreti. Troppo spesso abbiamo cercato di promuovere delle idee nell’ottica di questa società del consumo, l’Italia ha degli effetti cinematografici eccellenti e non c’è bisogno che io ve li ricordi, ma quello che dovremmo fare è invitare le persone a lavorare assieme a noi, affinché possano agire come interpreti, affinché le loro emozioni divengano parte integrante del documentario.
Bisogna essere estremamente delicati, non dobbiamo indottrinare le persone, non dobbiamo esercitare pressioni; si stabilisce un punto di vista e lo si fa in un modo costruttivo, ad esempio nel caso di “House”, questo non è che un documentario che si basa sulla giustapposizione di situazioni, poi lo spettatore è chiamato da solo a comprendere la complessità del conflitto israelo-palestinese e tutti gli aspetti storici che sono coinvolti nel documentario stesso. Questa è la mia risposta alla tua domanda.

Daniela Gualdi: proseguiamo attraverso l’opera di Gabriele Basilico, mostreremo una selezione delle sue fotografie tratte da “Milano. Ritratti di fabbriche” e “Oltre il paesaggio” generosamente concesse da Giovanna Calvenzi, con l’intervento di Andrea Elia Zanini.
Andrea Elia Zanini originario di Roma, vive a Milano dove si è laureato presso l’Accademia di Belle Arti di Brera in “Comunicazione e Didattica dell’Arte” e in “Visual Cultures e Pratiche Curatoriali”, con una tesi sui primi anni di attività di Gabriele Basilico. Curatore di mostre, contribuisce come redattore ad alcune riviste online e collabora attivamente con l’Archivio Gabriele Basilico.
Gabriele Basilico, è stato uno dei maggiori maestri della fotografia contemporanea. All’interno della sua vasta opera il tema della città occupa un posto centrale, racconta il costante processo di stratificazione che modella la città, in un lavoro di indagine del rapporto tra l’uomo e lo spazio costruito, durato quasi quarant’anni. Lui riesce a inquadrare esattamente il passaggio tra la modernità e la contemporaneità. Fedele allo stile del documentario, ha creato una ininterrotta narrazione di numerose città nel mondo, ponendole al tempo stesso in relazione tra loro, restituendo la straordinaria articolazione degli scenari urbani nei quali l’uomo contemporaneo vive. Grazie anche a quel tornare e ritornare sui luoghi, a quel guardare e riguardare il paesaggio antropizzato, osserva il mondo in trasformazione.
Ha scritto “coltivo l’illusione e la speranza che la disponibilità a osservare e ad accettare la condizione urbana contemporanea possa essere un buon punto di partenza per immaginare una città e un futuro migliori”.

Andrea Zanini vorrei iniziare con una domanda. Basilico scrive “la città mi veste e mi abita”, io non ho mai sentito un architetto amare in tal modo la città, della sua opera dice “basta la presenza di un passante per ridare all’architettura il valore di sfondo”, ce ne vuoi parlare?

Proiezione da “Milano. Ritratti di fabbriche” e “Oltre il paesaggio” di Gabriele Basilico
– Si ringrazia Giovanna Calvenzi, Archive Director dell’Archivio Gabriele Basilico per la gentile concessione delle fotografie pubblicate.

Gabriele Basilico, Shangai, 2010 ©Archivio Gabriele Basilico

Andrea Elia Zanini

Le immagini che vedete scorrere sono la selezione di fotografie che vanno dal 1980 al 2013 e che tentano di raccontare in pochi minuti quello che è stato l’immenso lavoro di Gabriele Basilico. Legandomi un po’ a quello che è il tema del convegno, in questa sessione particolare, l’Antropocene, Gabriele Basilico forse non avrebbe mai parlato di Antropocene, né la sua fotografia aveva questo preciso interesse. Lo era però piuttosto l’analisi della trasformazione della città, l’uomo e il suo abitare la città.  Queste peculiarità si prestano particolarmente al tipo di idea che trasmette l’Antropocene, ovvero l’idea che ci troviamo nell’era dell’uomo in cui questo agisce come forza geologica spaventosa e incontenibile.

Gabriele Basilico, Rio De Janeiro, 2011 ©Archivio Gabriele Basilico

Le immagini che Gabriele Basilico ci ha donato sono dei veri e propri punti di vista sulle città che noi tutti abitiamo, dalle grandi metropoli come Shanghai, Rio de Janeiro, New York alle più piccole città europee. È uno sguardo capace di evidenziare in modo preciso il suo modo di concepire la città, che riflette e porta a riflettere sulla sua trasformazione continua e sulla contemporaneità, che è allo stesso tempo continua mobilità e trasformazione.

Il lavoro di Basilico, come abbiamo appena detto, si muove all’interno di un linguaggio documentario come quello di Gitai e come quello di Salgado, cercando di modellare gli oggetti e le fotografie sui mutamenti epocali che sono in atto nelle città, nelle periferie, nelle metropoli e in tutto il paesaggio contemporaneo; questo, tenendo sempre conto della sua stratificazione e della sua complessità. E’ uno studio del rapporto fra l’uomo contemporaneo e i territori che modifica e abita, tutto avviene attraverso una fotografia sempre fedele a se stessa e che si pone sempre di fronte alla verità storica; è evidente soprattutto oggi, davanti a quello che noi definiamo Antropocene, quanto Basilico sia sempre stato capace di porsi di fronte a tutti i luoghi, anche ai più mediocri e contradditori, sempre in maniera oggettiva, sempre in cerca di una ragione, sempre cosciente del fatto che la fotografia non possa direttamente intervenire sugli effetti dell’antropizzazione, ma che possa invece, e questo è fondamentale, stimolare e aiutare una riflessione.


Per questo la sua fotografia, già dagli esordi, mi viene in mente la sua prima mostra del 1971 Glasgow, processo di trasformazione della città, è una fotografia che fa dell’impegno civile e dell’impegno sociale la sua ragione di essere. Quello che lui stesso definiva lentezza dello sguardo ovvero il suo modo di osservare, il suo sguardo meditativo di fronte alla complessità del mondo contemporaneo, gli ha consentito di affrontare nel tempo un numero straordinario di città: dalla sua Milano, a Roma, a Genova, a Barcellona, Lisbona, Londra, fino alle grandi metropoli come New York, Buenos Aires, San Francisco, Shanghai, dando vita a un organico di fotografie che compongono un immaginario urbano complessivo e allo stesso modo complesso, che tiene sempre conto delle stratificazioni storiche, delle ibridazioni culturali e della convivenza dei vari stili.  È un’analisi che riesce a portare alla luce la complessità della città contemporanea composta da luoghi eterogenei spezzati e polimorfi, ognuno con una sua precisa identità.

Gabriele Basilico, Jerusalem, 2006 ©Archivio Gabriele Basilico

Concluderei dicendo che ci troviamo in un’economia all’interno di un mondo e di una società che impongono veloci e continue trasformazioni che sconvolgono il territorio e distruggono la continuità degli spazi del vissuto e delle nostre città.  In questo Gabriele Basilico è stato capace di restituire, oltre al fascino, le contraddizioni, l’imponente e continua crescita, l’avanzamento del nuovo e il permanere del vecchio, sempre in un tentativo di comprensione e di restituzione dell’inesorabile fenomeno di trasformazione e di mutazione del paesaggio urbano.

Daniela Gualdi: ti ringraziamo. Ora proietteremo un breve estratto da “Il sale della Terra” di Juliano Ribeiro Salgado e Wim Wenders ed i trailer di due film: “A tunnel” e “The great green wall”; credo che tutti abbiamo sognato un’Africa verde, di questo parleremo con Juliano Salgado e Gaetano Capizzi, del contributo degli artisti e del Cinema alle questioni ambientali.

Juliano Ribeiro Salgado è un regista e scrittore brasiliano noto per “Il sale della terra” (2014), in precedenza ha realizzato: “Paris la métisse” (2005) e “Nelle mani degli dei” (2007).

Gaetano Capizzi, fondatore e direttore del Festival CinemAmbiente di Torino, Presidente Onorario del Green Film Network, è critico cinematografico e curatore di importanti eventi. Ha promosso il cinema indipendente italiano, curando rassegne e saggi, è stato tra i fondatori Centro Italiano del Cortometraggio.

Vorrei anche io cambiare mestiere e dall’architettura passare al cinema, mi sembra più interessante in questo momento la denuncia che arriva dal cinema, che pensare ad un’architettura che non ha più ricerca e propone l’International Style. Credo che mai come in questo momento abbiamo bisogno di una grande ricerca in architettura, come abbiamo visto nelle fotografie di Gabriele Basilico, ci sono metropoli dal Medio Oriente, alla Cina, all’America, completamente uguali, mentre ritengo che l’identità dell’architettura sia in una ricerca molto diversa, legata alla storia ma non per non essere innovatori, bisogna essere innovatori in architettura, ma bisogna essere grandi maestri per riuscirvi. Soprattutto è importante che l’architettura torni ad essere sociale, cosa che non è più, è invece sempre più legata alle grandi Archistar e penso che siano davvero poche quelle geniali, come sono state geniali le opere dei grandi maestri del ‘900. 

Proiezione di estratti da “Il sale della Terra”, “A tunnel” e “The great green wall”

Immagine tratta dal film documentario Il sale della Terra diretto da Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado.

Daniela Gualdi: nel film “Il sale della Terra” è narrato il lavoro di Sebastião Salgado, tra i più grandi fotografi dei nostri tempi, sull’America Latina, sulle drammatiche condizioni dei popoli africani, sulle condizioni dei lavoratori nel mondo, sulle grandi migrazioni umane ed infine sugli angoli del pianeta non ancora contaminati dalla modernità (Genesis). Noi ci limitiamo a mostrare il progetto che Sebastião Salgado porta avanti insieme alla moglie Lelia Wanick Salgado, di riforestazione della Mata Atlantica, che ha dato origine all’ Istituto Terra.

Juliano, hai realizzato un’opera irripetibile, che ha suggestionato tutto il mondo; mi domando se il tuo documentario sarebbe stato possibile senza il rapporto profondo e affettivo con tuo padre, lui è il protagonista, il lavoro è a quattro mani con Wim Wenders, ma siete anche tutti e tre i protagonisti di una storia, molto di più di un contributo dell’arte all’ambientalismo, vuoi parlarcene?

Juliano Ribeiro Salgado

Prima di tutto vorrei ringraziarvi per l’invito. È davvero un enorme piacere prendere la parola di fronte a voi. Il film Il Sale della Terra in realtà è stato un film veramente difficile da realizzare, come lo sarebbe stato per chiunque, parlando del proprio padre, molte sono le questioni da affrontare, quindi è stato estremamente complesso.  Tuttavia l’idea che era dietro Il Sale della Terra era quella di cercare di allontanare la soggettività, ovvero l’idea di utilizzare il cinema e quindi un film non solo per parlare di emozioni, ma anche per vedere il mondo attraverso gli occhi di un’altra persona, una persona diversa da noi, in questo caso, con gli occhi del protagonista, gli occhi di Sebastião.

Sebastião è stato uno dei più grandi testimoni dei mutamenti ambientali avvenuti negli ultimi quarant’anni. Lui è stato in prima persona nei posti in cui la storia aveva luogo. Ha seguito i giornalisti, ha assistito in prima persona ai più grandi cambiamenti che sono avvenuti negli ultimi anni e il punto di vista di Sebastião è molto diverso dal punto di vista con cui di solito ci si confronta; lui non era dalla parte di coloro che decidono, bensì cercava sempre di mostrare il punto di vista delle persone che subivano la storia, quindi è una lettura molto particolare.

Fotogramma tratto dal film documentario Il sale della Terra diretto da Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado.

L’idea è stata quella di portare il pubblico indietro nel tempo e nello spazio, così da potersi recare con Sebastião nei luoghi da lui stesso percorsi, per vivere insieme a lui dei momenti specifici. Quindi è stata un po’ una rivisitazione di quarant’anni di storia attraverso gli occhi di questo testimone così speciale; è stato al contempo un modo per vedere come Sebastião si confrontasse con delle esperienze primordiali, perché molte volte si è recato in luoghi dove si è trovato ad affrontare l’idea della fine, della morte, della fine di una comunità; cosa accade dopo? Cosa avviene dopo? 
Un aspetto molto interessante al riguardo è il fatto che Sebastião ha condiviso tutte queste esperienze proprio nella creazione e nel montaggio del Sale della Terra, esperienze di come l’umanità sia rimasta umanità anche nel momento in cui si è trovata a fronteggiare condizioni estreme.  Questo è quello che mostrano le sue fotografie, i suoi lavori, soprattutto in Etiopia, un territorio in cui le persone si sono trovate alle prese con la morte dei membri della propria comunità, dei propri parenti.  

Salgado sa guardare alla comunità e agli esseri umani che ne fanno parte, comunità che permane anche dopo aver vissuto qualcosa di tremendo. C’è qualcosa di umano in ogni persona, questa umanità che lui fotografa e che non è solamente una sensazione, ma è l’affermazione di un’idea: c’è qualcosa che ci rende umani, la nostra capacità di essere sociali, di essere una comunità.
A un certo punto, quando arriva in Ruanda, scopre che questo messaggio non è sempre vero. Ci sono delle comunità che non riescono a sopravvivere e la barbarie prende il sopravvento. Questo è avvenuto per l’appunto con il genocidio in Ruanda, uno dei momenti più bui della nostra storia recente, ovvero l’idea che gli esseri umani come comunità possano fallire a favore della barbarie. E’ avvenuto non solo in epoca nazista, ma anche successivamente, quindi è una sorta di promemoria della fragilità degli esseri umani; dobbiamo guardare alla storia, se vogliamo essere in grado di affrontare e gestire le comunità nel modo più appropriato.

Nella vita di Sebastião è molto interessante vedere e riconoscere le risposte che egli trova a tutto ciò.

Instituto Terra – RPPN Bulcão Farm – Sebastião Salgado, 2013

La terra di mio nonno, parliamo di 700 ettari di terra in Brasile, sembrava praticamente morta, un deserto, come quella ripresa nel film ambientato nel sud del Sahara,  in cui si è cercato di costruire la grande muraglia verde. Tuttavia in vent’ anni siamo riusciti a piantare moltissimi alberi, a far crescere una nuova foresta. Un aspetto interessante del film di cui avete visto un estratto consiste nel fatto che, a prescindere da chi siamo e dove siamo, a prescindere da quale sia la nostra capacità di influire sul mondo e sulle sue dinamiche, possiamo comunque fare la differenza, possiamo agire sulla società.
È esattamente quello che ha fatto Sebastião. Lui ha agito per cercare di modificare quella terra e questo è il messaggio che vogliamo dare, trasmettere al nostro pubblico. I cittadini normali, le persone normali possono agire in primo luogo per modificare in senso positivo il mondo e renderlo migliore.

Credo che potremmo tracciare un punto di unione fra ciò che facciamo come registi e quello che facciamo come architetti. Naturalmente nel mezzo c’è il concetto di multidisciplinarietà: quando si è architetti bisogna conoscere gli aspetti ingegneristici, ma anche quelli legati alla biologia, ad esempio le caratteristiche fondamentali degli esseri umani; dobbiamo sapere come l’essere umano vive, dobbiamo avere delle conoscenze, anche in ambito antropologico, per comprendere come meglio integrarsi nella società in cui si sta realizzando il proprio edificio, e la stessa cosa avviene con i film. 

Quando si crea un documentario si deve comprendere qual è l’ambiente in cui si agisce, quali sono i confini entro i quali si opera, per mostrare una realtà che sia fedele alla realtà stessa, che rispecchi sì la nostra visione del mondo, ma che sia anche aderente al contesto e alla popolazione che lo abita.
Bisogna essere sinceri senza manipolare, senza tradire soprattutto la comprensione e la fiducia che la persona ripone in te nel momento in cui decide di guardare il film; bisogna essere fedeli nei confronti della realtà nella quale si opera; si deve agire a diversi livelli per comprendere al meglio la situazione ed essere in grado di raggiungere il pubblico; pubblico che secondo me è in grado di comprendere la realtà che gli viene mostrata.

Per quanto mi riguarda un altro aspetto interessante è stato il fatto che, una volta concluso Il Sale della Terra, i miei genitori hanno dovuto abbandonare il Brasile per la dittatura. Io sono nato in Francia, tuttavia sono brasiliano, sebbene con un forte accento francese. Da tanto tempo sono tornato a vivere in Brasile, ho iniziato a guardare all’Istituto Terra e ho realizzato che avevo molto da offrirgli come regista, per permettere loro di comprendere ed esser parte integrante di queste narrative che volevo condividere.

Ora vorrei condividere con voi il mio schermo per mostrarvi la realtà dell’Istituto Terra oggigiorno. Sono delle immagini molto forti; questi sono i confini dell’Istituto Terra e dietro questa collina vedrete tutti gli alberi che abbiamo piantato.  È uno spettacolo meraviglioso, perché la realtà va ben oltre ciò che si può vedere nel film Il Sale della Terra. L’ Istituto Terra, che state scoprendo attraverso queste immagini, e tutto quello che vedete sullo sfondo, fino al “terzo piano”, è stato piantato negli ultimi trent’anni; è una cosa impressionante, quando si va lì ci si trova di fronte a una foresta che è già cresciuta, sono tornati gli animali ad abitarvi, si è già ricostituita la catena alimentare, sono nuovamente presenti i mammiferi; la natura si è riappropriata di questo luogo. 

La prima cosa che abbiamo fatto è stata rigenerare questo territorio, riportando la vita in un luogo in cui la vita sembrava definitivamente persa. Naturalmente lo abbiamo fatto facendo un passo per volta, poco alla volta, per trasmettere questi esempi importanti e per sfruttare questo esempio anche come riferimento estetico.
Abbiamo dovuto rivitalizzare questo territorio, ma come lo abbiamo fatto? Che cosa abbiamo fatto? Non si tratta solo di una questione estetica, sebbene l’operazione abbia in sé anche questa componente. Abbiamo iniziato, da quindici anni ormai, a realizzare dei programmi educativi che vogliono mostrare l’agricoltura che è possibile sviluppare in quel luogo, utilizzando delle tecniche rigenerative finalizzate alla protezione della terra. 
Inoltre nella nostra regione c’è una forte problematica per quanto riguarda l’acqua; quindi quello che abbiamo fatto è stato iniziare a ripiantare gli alberi sulle sorgenti per creare una riserva d’acqua sotto questi terreni, per tentare di proteggere questi serbatoi sotterranei e, allo stesso tempo, per purificare l’acqua in modo tale da poterla utilizzare.

Le fotografie evidenziano la straordinaria attività di riforestazione operata dall’Instituto Terra.
©Instituto Terra

Stiamo cercando di ripristinare il ciclo dell’acqua attraverso la riforestazione. Quando abbiamo iniziato a lavorare ci siamo resi conto che nel momento in cui torna l’acqua la produttività viene ripristinata. La vita delle persone che abitano questa terra viene stravolta in senso positivo.  Vediamo coppie con figli, in grado di sopravvivere in questo luogo che sembrava morto. Ci siamo resi conto come, attraverso il nostro operato, potevamo migliorare la qualità della vita delle persone.

Questo è un esempio di ciò che si vede al di fuori delle terre dell’Istituto Terra: fenomeni di erosione, questa terra che ormai ha assorbito tutta l’acqua, una terra che estremamente povera di nutrimenti naturali.
Vedete a destra l’IT e a sinistra i terreni che non appartengono all’IT. Vedete come la superficie sia completamente diversa; ci siamo resi conto del fatto che la nostra azione ha avuto anche delle conseguenze e un impatto a livello macroeconomico.  Molte piccole città, durante il periodo di siccità, non hanno più potuto attingere alle sorgenti d’acqua, quindi era necessario portare l’acqua a queste comunità. Nel momento in cui abbiamo ripristinato queste sorgenti d’acqua, l’acqua è tornata anche nelle città, che naturalmente sono state fortemente colpite dal fatto che l’acqua veniva deviata alle comunità e ci sono state delle conseguenze a livello economico fortissime: le comunità sono tornate indipendenti, hanno iniziato a coltivare i propri campi, hanno ripreso a dedicarsi all’agricoltura. Si sono prodotti dei movimenti economici e ci sono stati forti progressi dal punto di vista economico.  Ciò che sta facendo l’Istituto Terra, ed è estremamente importante in Brasile, è provare il fatto che si può restituire valore alla terra attraverso la riforestazione.

Oggi in Brasile, come saprete, è in atto una violenta deforestazione, ne parlano tutti i giornali, tutti sanno perfettamente ciò che sta avvenendo in Brasile, con l’IT stiamo cercando di dimostrare quanto sia possibile ridare valore alla terra non rimuovendo queste piante, bensì restituendo alla terra gli alberi attraverso il processo inverso. Una delle cose che stiamo facendo, ormai da circa quattro anni, abbiamo iniziato a partecipare sempre più a diverse iniziative e abbiamo lanciato una campagna di sensibilizzazione chiamato RIFORESTARE. Roberto Gio, è stato uno dei più grandi compositori brasiliani, non so se lo conoscete, ha composto una musica per l’IT e abbiamo avviato una campagna per cercare di sensibilizzare le persone su questo argomento, per convincere la società brasiliana della possibilità di arricchire la terra e del fatto che la terra si arricchisce molto di più riforestandola che deforestandola.

Vorrei mostrarvi un video, ma forse richiederebbe troppo tempo, tuttavia sullo schermo che state condividendo potete vedere il nostro sito internet, visitatelo, se vi va; è un esempio bellissimo che mostra come si può iniziare, ad esempio commentando ciò che succede sulla Terra, realizzando delle foto, parlando di ciò che siamo come esseri umani, in che modo ciascuno di noi può fare la differenza cercando di cambiare le nostre convinzioni e cercando di trasformare tutti questi pensieri, questi commenti in azioni concrete. Non stiamo cercando solamente di convincere le persone, ad indirizzarle verso un cambiamento, no, ci stiamo “sporcando le mani”, stiamo andando lì per determinare il cambiamento, per renderlo possibile , piantando in prima persona gli alberi di cui la nostra terra ha bisogno.

Non importa quanto potere si pensa di avere, quanto si è organizzati, quanto si è strutturati, perché si inizia dalle piccole cose e questo è esattamente il principio che è alla base del movimento in cui crediamo e che abbiamo cercato di convogliare attraverso il Sale della Terra.

Daniela Gualdi: è stata una lezione di ambientalismo straordinaria, peraltro posso aggiungere che conosco e amo il bosco, anche se quello mediterraneo perché mio padre è stato un grande forestale italiano, ora non è più con noi, anche a lui va il mio pensiero, per avermi insegnato ad amare gli alberi.
Grazie, perché la vostra azione è artistica, poetica, politica, economica in una terra complessa come il Brasile, un paese oggi in grande difficoltà politica; speriamo che possa tornare una luce di speranza per tutto il tuo popolo. Ti ringrazio tantissimo e spero che potranno maturare nuovi progetti anche dalla Casa dell’Architettura di Roma.

Chiudiamo questa sessione di lavoro con Gaetano Capizzi.

Gaetano hai fondato un festival, CinemAmbiente di Torino perché evidentemente l’importanza del cinema internazionale sull’ambiente è diventata una questione estremamente attuale; vorremmo che tu ci facessi una lezione su questo importante argomento.

Gaetano Capizzi

Innanzitutto vi ringrazio per avermi invitato. È stato tutto molto interessante anche poter interloquire con Juliano e Gitai che sono dei personaggi molto importanti nel mondo del cinema. Ringrazio anche Juliano di questa testimonianza sull’ Istituto Terra che è veramente un esempio da seguire. Io quando ho visto il film mi sono ricordato di un libro di Jean Jonot L’uomo che piantava gli alberi, che Juliano sicuramente conosce, e anche del cortometraggio di animazione di B vincitore di un premio Oscar, che faceva teoricamente quello che Juliano e suo padre stanno facendo concretamente, dimostrando che si può fare.  È veramente un esempio importante per tutto il mondo. Tra l’altro nel Sale della Terra c’è anche il servizio che è stato fatto in Etiopia da Sebastiano Selgado durante la carestia e nel Great Green Wall si vedono gli stessi luoghi, il Tigrai, che adesso è stato riforestato, in qualche modo. È cambiata la situazione, sono dei passi molto importanti di cambiamento che si sta avvertendo. 

Volevo tornare al tema del giorno, oggi 22 aprile è la giornata della terra, e al tema dell’architettura, forse oggi sono l’unico non architetto, e la prima cosa che mi viene in mente è il titolo del libro di Greta Thunberg, La nostra casa in fiamme, perché siamo in un momento di emergenza estrema.

Il titolo della nostra sessione è Antropocene. Noi siamo addirittura in un’era geologica determinata dal comportamento umano. Il cambiamento di un’era geologica dall’Olocene all’Antropocene ha anche dei parametri di misurazione e cioè si cambia era geologica quando cambia il clima, quando c’è un’estinzione di massa. Noi stiamo assistendo alla sesta estinzione di massa biologica in cui si verifica un’erosione del suolo molto forte e quando anche il mare si acidifica e si riscalda. Sono dei parametri geologici che si stanno verificando in questo periodo che hanno determinato questa denominazione e questo cambiamento di era geologica.

Fotogramma tratto dal film documentario The Great Green Wall, 2019

Le ere geologiche cambiano e non è detto che un cambiamento di era geologica non sia un evento naturale. Il problema è che le ere cambiano lentamente per cui, secondo il principio dell’evoluzione di Darwin, le specie hanno il tempo di adattarsi a quello che succede.  La nostra era geologica, l’Antropocene, invece sta determinando cambiamenti rapidissimi, con conseguenze devastanti per tutti noi e per tutte le forme viventi. C’è una grandissima urgenza e tutti dovrebbero riconoscere ed assumersi questa responsabilità dell’urgenza.  Innanzitutto chi lavora in questo settore, ma soprattutto chi lavora nella cultura e nell’arte.  L’arte in questi anni è stata investita da questa urgenza e anche da questo cambiamento di mentalità a livello globale, perché sta cambiando la sensibilità verso i problemi ambientali. Lo dimostra anche la creazione dell‘Istituto Terra e di tantissime altre realtà. Oggi aprendo il giornale si parla della Giornata della Terra dappertutto. La Stampa di Torino gli ha dedicato l’intera copertina, non solo il titolo, e poi anche accendendo la televisione, le pubblicità o qualsiasi cosa sono di tipo green o di tipo eco. Ormai se un prodotto non è eco o biocompatibile o a risparmio energetico, se l’auto non è elettrica non si vende. Questi sono degli indicatori importanti del cambiamento generale di una mentalità verso i temi dell’ambiente. Secondo me è fondamentale il ruolo dell’arte, perché realizza in parte il concetto gramsciano, se vogliamo un po’ riprendere le categorie di una volta, dell’egemonia culturale. Se non cambia la cultura, se non c’è un’egemonia culturale, non c’è cambiamento; Alexander Langer definiva la necessità di rendere l’ambientalismo socialmente desiderabile, l’importanza di voler accedere a questo tipo di cose.

Dico questo, per introdurre il tema del cinema ambientale perché è cambiato il modo di sentire e gli artisti, che hanno le antenne più di tutti quanti verso il futuro, hanno captato questa cosa già da tanto tempo, ma non solo nel cinema anche nella letteratura. C’è una sessione di questo convegno che è un titolo letterario “La grande cecità” e il cinema già da tanti anni, da circa 40 anni, con Hollywood Report, che è una rivista molto importante di riferimento per il cinema, ha identificato un genere cinematografico che si chiama green cinema.  Sono film che trattano la questione ambientale in cui questa viene trattata esplicitamente ed è fondamentale per la narrazione della storia. Questo tipo di impostazione ha travolto tutti i generi cinematografici: la fiction mainstream hollywoodiana, i film di animazione che parlano molto di questi aspetti, la fantascienza che è da sempre considerata un po’ come termometro del sentire comune. Il cinema di fantascienza adesso è definito il cinema del disastro perché in qualche modo affronta i temi legati a un disastro ambientale già in atto e che è già passato, ci sono molti studi da questo punto di vista. Sono nate case di produzione specializzate e Jeffrey Skoll fondatore di e-bay, dopo essersi liberato di e-bay ha fondato una casa cinematografica che produce film impegnati socialmente soprattutto dal punto di vista ambientale. Ha prodotto per esempio un documentario premiato con l’Oscar intitolato Una Scomoda Verità che ha lanciato Al Gore verso il premio Nobel per la pace, che ha fatto conoscere il grande problema dei cambiamenti climatici, un film documentario che è stato un fenomeno.

Ma addirittura tutto lo star-system che gira intorno al cinema è diventato green. Non c’è star americana a iniziare da Di Caprio, da Matt Damon che non sia impegnata in qualche campagna di salvaguardia del pianeta. Per cui siamo passati da un’epoca culturale, quella dell’edonismo reganiano, a questo tipo di sensibilità. Può essere discutibile che le grandi star milionarie che girano con jet privati siano ambientaliste però è un segno dei tempi, sicuramente.

Ma il genere che è stato più coinvolto da questa ondata è il documentario. Il documentario è fondamentale in questo scenario. Sul documentario si può dire tanto perché il documentario oggi, e il documentario ambientalista in particolare, è un genere emergente. Vediamo festival internazionali di fiction come il Festival di Venezia o di Berlino che premiano come miglior film un documentario.
Il documentario d’autore oggi è un fenomeno assoluto. La definizione linguistica di documentario è affrontata oggi dai grandi registi e non si capisce più quale sia il confine tra fiction e documentario o quanto ci sia di fiction nel documentario e viceversa. 
Questi documentari, soprattutto quelli ambientalisti si stanno affermando in tutto il mondo.
Ad esempio Una Scomoda Verità è stato anche un fenomeno economico di botteghino e ha incassato tantissimo, altro segno dei tempi.
E anche i documentari naturalistici tipo La Marcia dei Pinguini che ha vinto anche questo l’Oscar ed è stato tra i documentari che hanno incassato in assoluto di più nella storia del cinema. Noi vediamo nella Top Ten dei documentari di tutta la storia del cinema, i documentari ambientalisti e naturalisti; se andate a vedere le classifiche dei botteghini ci sono documentari che sono stati visti da centinaia di milioni di persone, che sono stati proiettati in tutto il mondo, e questo è un dato di fatto importante ed incontrovertibile.

Daniela Gualdi: ti ringrazio per averci ricordato che nessun cambiamento ambientale potrà essere possibile senza un cambiamento culturale e ti ringrazio per averci ricordato Antonio Gramsci.

Flavio Trinca: Grazie, come ho detto all’inizio vorremmo che questo evento fosse prodromo di una serie di incontri successivi, perché come potete immaginare gli argomenti toccati sono tanti e di cruciale importanza, avrebbero bisogno di maggiore spazio e apprendimento.

1) Il programma completo del Convegno: Abitare la terra: ambiente, città, paesaggio – Roma 22 Aprile 2021

[1] Esther 1986, Berlin-Jerusalem 1989, Golem-Lo spirito dell’esilio 1992

[2] L’inventario (Devarim) 1995, Giorno per giorno 1998 e Kadosh 1999

– Nell’immagine di copertina: Cueva de las Manos (Caverna delle Mani), Perito Moreno, Argentina

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