Atti del Convegno “Abitare la Terra” – A cura di Daniela Gualdi e Flavio Trinca
Si ringraziano gli ospiti intervenuti per la preziosa partecipazione.
Si ringraziano Simona De Sanctis, Antonietta Salustri e Laura Tondi per il contributo alla trascrizione degli atti.
III SESSIONE
Si informano i lettori di AR Web che saranno presto pubblicate anche le altre sessioni del convegno.
Flavio Trinca
Come detto in precedenza, vorremmo che questo evento fosse prodromo di una serie di specifici incontri nei quali trattare più approfonditamente i numerosi argomenti oggi affrontati. Introduco la terza sessione dal titolo “Casa come Me”, parafrasando il titolo di uno scritto di Curzio Malaparte[1], con la proiezione di estratti selezionati dal film di Jean-Luc Godard “Il Disprezzo”, tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia del 1954, ambientato in larga parte nella Villa Malaparte di Capri.
Proiezione di estratti selezionati dal film “Il Disprezzo”, Jean-Luc Godard, 1963
Abbiamo voluto introdurre questa sessione con le immagini tratte da questo celebre film di Godard in quanto riteniamo che, almeno in questa parte finale, il vero protagonista sia il Paesaggio.
Lo è sicuramente l’architettura che ha, tuttavia, un rapporto strettissimo con il paesaggio: come è evidente nel film anche nelle riprese degli interni dell’architettura; il Paesaggio assume un ruolo preponderante, tale da far quasi svanire anche la sublime bellezza di Brigitte Bardot.
Iconica anche la descrizione del paesaggio che fa il produttore – il plot racconta dall’interno la costruzione di un film – attraverso l’immagine visibile dalla vetrata che costituisce il fondale trasparente del camino.
La scelta di queste immagini e di questa iconica casa ci offrono lo spunto per introdurre la terza sessione dei lavori in cui cerchiamo di fare un passo avanti riguardo i temi sviluppati in questo convegno, avvicinandoci ai nostri tempi, per indagare le attività dell’uomo che hanno conformato il territorio: le città che hanno definito il discrimine tra il paesaggio urbano e quello naturale, con le architetture che a volte si inseriscono nel paesaggio o che addirittura lo costruiscono, come nel caso di Villa Malaparte a Capri.
In questa sessione, attraverso il contributo che ci forniranno ospiti di diversa estrazione, formazione e sensibilità culturale, cercheremo di ragionare su questi temi.
Vi anticipo i relatori di questa sessione:
Dani Karavan, scultore e artista ambientale israeliano, noto in tutto il mondo per la sua opera, Carla Zara Buda, responsabile degli archivi di architettura del MAXXI, Museo delle Arti del XXI secolo, Chen Song, architetto e docente presso la Jiliang University di Hangzhou in Cina, Guido Vittorio Zucconi, già professore di Storia dell’Architettura presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia – IUAV, Flavio Caroli, critico, storico e divulgatore d’arte, che molti avranno riconosciuto quale frequente ospite di trasmissioni televisive
In questa sessione esamineremo il rapporto complesso – ma spesso fecondo – tra arte, architettura e ambiente naturale che costituisce da secoli l’identità spaziale e formale dei paesaggi che percepiamo e viviamo; l’insieme dei luoghi nei quali gli abitanti della Terra maggiormente si riconoscono, identificandosi in specifici paesaggi, frammenti unici e spesso irripetibili dell’interazione tra natura e attività umana; luoghi in cui il connubio architettura-ambiente è capace di creare arte, e quindi emozione.
Introduciamo i nostri ospiti con una serie di immagini evocative, contributi fotografici che non vogliono essere esaustivi ma che costituiscono spunti di riflessione per la successiva discussione.
Proiezione di immagini: Falling Water, la Via Krup, il Teatro di Epidauro, il grande Cretto di Gibellina, Matera, La Città proibita, Brasilia, le Terme di Bonifacio VIII a Fiuggi, Ponte Musmeci, Ponte Hong Kong, The Floating Pears
Le immagini che vi stiamo proponendo vogliono essere esemplificative del differente rapporto che l’opera dell’uomo – l’architettura, la città – ha costruito con l’ambiente, che preferiamo definire Paesaggio, in quanto molti di questi siti, pregevoli dal punto di vista ambientale, sarebbero oggi giustamente tutelati e, pertanto, molte delle opere qui rappresentate, oggi non sarebbe possibile costruirle.
Rappresentano a nostro avviso delle vere e proprie icone del rapporto tra intervento umano e paesaggio; un diverso modo di interpretarne la relazione capace di costruire “nuovi” paesaggi.
Abbiamo visto la “Casa sulla Cascata”[2] , da molti ritenuta l’icona dell’integrazione dell’architettura con la natura, tuttavia sono forse ancor più interessanti, gli esempi in cui la nostra architettura, il nostro modo di insediarci sulla terra, è stato capace di creare nuovi ed inediti paesaggi.
Come riporta la Convenzione Europea[3] il Paesaggio, è tutto ciò che ci circonda, tutto l’ambiente sensibile in cui viviamo, che sia esso naturale o antropizzato, ed è soprattutto il luogo in cui ci identifichiamo. Riteniamo quindi estremamente importante che l’architettura, riacquisisca la sua capacità di creare paesaggi, di generare rapporti significativi e virtuosi con l’ambiente; Architettura intesa nel senso più ampio ed estensivo del termine: ad esempio nella Città Proibita[4], luogo unico e straordinario di cui ci parlerà successivamente e più compiutamente Chen Song, si tratta di paesaggio generato dalla pianificazione.
È importante riflettere sulle immagini proposte, selezionate volutamente con un criterio eterogeneo, per riflettere su approcci ideologici e politici anche differenti tra loro nella interpretazione del rapporto tra ambiente e paesaggio.
La bellissima serie di fotografie offerta da Moreno Maggi, bravo e sensibile fotografo di architettura, ci raccontano di un luogo, situato molto vicino a Roma, le Terme di Bonifacio VIII dell’architetto Luigi Moretti, altro straordinario esempio di architettura che “costruisce” il paesaggio – diviene essa stessa Paesaggio – creando un connubio indissolubile tra l’ambiente circostante e le forme dell’architettura, per inventare nuove possibilità percettive – appunto Paesaggi – analogamente a quanto abbiamo potuto riscontrare nella straordinaria Villa Malaparte.
Non si tratta di forme, o di materiali, di stile o di momento storico in cui le architetture sono state realizzate: piuttosto rilanciamo una riflessione sulla possibilità, oggi e nel futuro, di proporre nuovamente un rapporto fecondo tra l’attività antropica, l’architettura e l’ambiente naturale.
La fotografia, di cui abbiamo parlato abbondantemente in questo convegno, diviene anch’essa strumento interpretativo: lo sguardo del fotografo, strumento di rappresentazione solo apparentemente oggettivo, analogamente a quello del documentarista, ci propone una chiave di lettura soggettiva, determinata dalla scelta di “cosa e come” vedere dell’ambiente rappresentato, divenendo anche strumento di studio e conoscenza che esula dall’analisi puramente disciplinare.
Ad esempio, nelle fotografie di Moreno Maggi, l’utilizzo del bianco e nero pone sullo stesso piano rappresentativo natura ed architettura, fornendo una visione, a nostro avviso più corretta, dei “paesaggi” immaginati da Luigi Moretti.
Ci sembra evidente l’analogia tra queste immagini delle Terme di Fiuggi con quelle del film di Godard, soprattutto nel piano sequenza finale dove la figura Ulisse, protagonista del film peplum la cui realizzazione è il pretesto in cui si ambienta la pellicola di Godard, si affaccia e si dissolve nell’immensità del mare; l’oceano infinito, la natura – nella sua immutabilità, allora come oggi indifferente ai drammi umani narrati – è il vero protagonista del racconto.
Questa relazione tra l’umano e la natura, il dissolversi dell’uno nell’altro, lo possiamo rileggere anche nelle immagini di Moreno Maggi.
Analogamente alle terme di Luigi Moretti, il Ponte sul Fiume Basento progettato dall’ing. Sergio Musmeci, delle cui bellissime immagini proiettate dobbiamo ringraziare l’architetto Fanelli, può essere interpretato, anch’esso, come una “costruzione di paesaggio”: la capacità di trasformare un’opera infrastrutturale in una figura iconica che caratterizza e trasforma per sempre la percezione del Paesaggio.
Sempre per analogia può anche essere interpretata la realizzazione di una delle più grandi opere della nostra epoca: l’infrastruttura stradale che collega Hong Kong, con Zhuhai e Macao, caratterizzata da un ponte, lungo 29,6 chilometri e da un tunnel sottomarino di 6,7 chilometri, per uno sviluppo complessivo di 55 chilometri.
Il tema del ponte risulta particolarmente fecondo di riferimenti per il nostro convegno, per la costruzione di nuovi ed inediti paesaggi; si tratta difatti di un elemento inesistente in natura, creato dall’uomo per collegare tra loro, luoghi fisicamente distanti, mondi spesso anche concettualmente diversi ed “altri”.
Questo tema è sviluppato anche dal duo di landartist Christo e Jeanne-Claude, in quella che può essere considerata la loro ultima opera[5], The FloatingPiers, realizzata nel 2016 in Italia, sul Lago di Iseo, visitata da oltre 1,5 milioni di persone nei pochi giorni della sua effimera durata.
Un paesaggio fatto per essere fruito, in qualche modo abitato.
Presento ora il nostro primo ospite, il professor Flavio Caroli, storico e critico d’arte, noto ai più per le sue numerose attività divulgative, e che abbiamo coinvolto per introdurre il tema del rapporto tra arte, architettura, città natura e ambiente, anche dal punto di vista strettamente artistico.
Flavio Caroli
Riguardo il rapporto estetica, creatività e paesaggio mi soffermerei sin da subito, sui casi in cui l’intervento creativo sul paesaggio è tendenzialmente stabile o avrebbe l’ambizione di esserlo.
Vi propongo alcuni esempi: il primo è quello di Burri[6]: una grandiosa invenzione, segno umano sul paesaggio, di altissima civiltà figurativa, addirittura metafisica.
Altro esempio di intervento che doveva essere stabile e poi non lo è stato, è la mostra dello scultore italiano Consagra, a Matera; città alla quale si è già accennato nel corso del convegno.
Consagra intese entrare in questa sorta di convivenza tra l’arcaico, l’antichissimo, e forse addirittura il primario, e la scultura moderna, con un risultato, a mio avviso, bellissimo.
Io ricordo la mostra: c’era una specie di unità tonale tra la pietra preistorica, la scultura e l’insieme del quadro visivo percepito; esempio mirabile, che è stato un peccato non riprendere un paio di anni fa, quando Matera è stata capitale della cultura.
Ancora un altro esempio, questo si che è stabilizzato.
Ho sentito prima parlare di Gramsci, è uscita la parola gramsciano; ecco, una cosa molto interessante e molto bella fatta una quarantina di anni fa, è stata quella di Giò Pomodoro ad Ales, proprio nel paese natale di Gramsci. Chi vuole può ancora andare a vederla; Pomodoro genera questa idea iconica, questa forma geometricamente perfetta all’interno del degrado; per certi versi della pubertà del luogo costruendo insieme ad una scultura, una specie di luogo comune nel quale potevano essere fatti i fuochi, in cui poteva essere praticata la vita civile. Non conosco lo stato di manutenzione dell’opera attualmente, ma è una idea molto bella che continua ad esistere.
Sempre in merito alla stabilità vorrei citare un esempio americano dello scultore James Turrell[7]. il quale ad un certo punto ha fissato un proprio punto di vista all’interno di un vulcano, in Arizona, e da lì si vede un’idea, il punto di contatto tra il luogo in cui si vive e la visione dell’universo. Un’opera assolutamente stupefacente, mirabile e che genera meraviglia: il genere di meraviglia è che è tendenzialmente stabile, invita ad un rapporto stabile dell’uomo con l’universo che lo circonda.
Poi ci sono le mostre temporanee, che pur nella loro natura effimera, ci suggeriscono delle cose. Ne elencherei rapidamente alcune: la prima è quella che avete già citato di Christo (The FloatingPiers, ndr.). Ho conosciuto Christo appena venuto in Italia, da allora la sua idea non ha fatto che evolversi. L’evento del Lago d’Iseo ha la finalità di riportare la meraviglia dell’arte all’interno di un contesto di vivibilità.
Come ulteriore esempio non durevole, alcune mostre e qualche intervento esemplare sull’ambiente sono stati fatti Richard Long[8] in Inghilterra. Richard Long lavora con la natura e opera all’interno della natura secondo una logica ed una estetica che non trascurano principi di caos che appartengono alla legge stessa delle cose, della vita. Il lavoro di Long genera una sorta di equilibrio tra la volontà di ordinare e la volontà di accettare il disordine delle cose.
In Italia possiamo citare l’esperienza dell’Arte Povera[9]; ad esempio Giuseppe Penone nel 1968 applicò una specie di mano di metallo ad un arbusto, ad un albero, prevedendo ciò che sarebbe naturalmente accaduto: l’albero crescendo ha progressivamente incorporato l’organo artificiale, modificando la forma della sua crescita, a dimostrazione del fatto che il progresso culturale alla fine prevale anche sulle regole della natura[10].
Proprio riguardo alla possibilità dell’ intervento umano minatore della natura, non possiamo non citare il protagonista della Land Art, Haizer[11], il quale è stato protagonista di grandi interventi ordinando e imponendo ordine alla natura stessa.
Tutti esempi di questo affanno che ha toccato l’uomo: la ricerca di una estetica che vibra all’interno di un ordine naturale.
Si è parlato di cinema e quindi del tema del paesaggio come stato d’animo, paesaggio in quanto proiezione del sentimento degli uomini, del rispetto degli uomini per il paesaggio; sono stato testimone dello sviluppo iniziale di questo tema nel cinema attraverso un episodio che è naturalmente legato alla figura del grande Michelangelo Antonioni, in quanto il movimento della nouvelle vague francese si è sviluppato successivamente.
Racconto sempre questo aneddoto perché sono di nascita ravennate; venni a sapere che Antonioni stava girando Deserto Rosso in città; dunque la mattina disertavo la scuola per andare a seguire le riprese. C’è un angolo di via, che si riconosce nel film, in cui una mattina stavano girando una scena del film, tuttavia il regista non era contento del risultato. La mattina successiva la stessa scena, che inquadrava Monica Vitti accanto ad un vecchietto con un carretto della frutta che veniva dipinto di grigio: Antonioni girò la scena, ma non risultava ancora contento. Il terzo giorno, stessa scena, ma veniva dipinto di grigio il selciato della strada: anche in questo caso il regista ha girato, ma senza convinzione. Il quarto giorno torno sul posto e trovo che stavano dipingendo di grigio il vecchietto: finalmente Antonioni girò la scena soddisfatto del risultato: è questa l’origine del Paesaggio come Stato d’Animo!
Antonioni riprese meravigliosamente queste tecniche qualche anno dopo con tecniche digitali, all’avanguardia della storia del cinema, con un film fondamentale “Il Mistero di Obervald” del 1980: grazie all’episodio di cui sopra sono testimone del fatto che Antonioni cominciò a farlo con pennelli e colori.
La conclusione del mio intervento è in realtà molto semplice: il problema del futuro sarà quello di far convivere la dimensione estetica con la dimensione della sostenibilità; in tutto questo c’è sicuramente una componente di utopia; tuttavia io credo che questa mattina, siamo qui, proprio per spendere la nostra piccola quantità di utopia e amore per la convivenza tra uomo e natura.
Flavio Trinca: ringrazio per l’interessante intervento il Professor Caroli: la convivenza di cui lei parla tra estetica, arte, valore ambientale e sostenibilità ci sembra essere un argomento ricorrente, anche nei precedenti interventi, uno dei temi che anima questa giornata.
Abbiamo infatti iniziato la giornata parlando della prima forma reale di insediamento umano sulla terra, riconoscibile nei dipinti rupestri, quindi in una forma di espressione artistica, che avvenne molto prima che l’uomo decidesse di tracciare linee che definiscono il perimetro di una abitazione, di un luogo sacro, di un monumento o di una città. Dunque è chiaro quanto occorra riattivare questa sensibilità: non dovremmo pensare alla sostenibilità esclusivamente intesa come rapporto ambientale o ambientalistico del nostro occupare la terra, ma dobbiamo riscoprire anche significati altri, il mito, la bellezza.
Flavio Caroli: se posso la bellezza è primaria, e quindi viene addirittura prima del resto.
Flavio Trinca: ma infatti questa bellezza è sostenibilità.
Flavio Caroli: certo, certo. Io ho citato Picasso, quindi l’arte stessa, ma lei pensi a Jung, tutti i suoi studi sono stati orientati in quella direzione, alla scoperta di ciò che è primario, di ciò che si perpetuerà, per sempre, nella vita dell’uomo.
Flavio Trinca: la ringrazio molto per il suo contributo, spero che i nostri iscritti siano incuriositi dalle sue parole, basta vedere le immagini di queste opere di cui ci ha parlato: tutti artisti che conosciamo ed amiamo. Anch’io ricordo la prima proiezione a Roma de “Il mistero di Obervald” mi sembra di ricordare fosse al Cinema Maesoso, su Via Appia Nuova, presenti Antonioni e Monica Vitti. Per me rappresentò un’esperienza davvero formativa, quando ancora non si parlava realmente di manipolazione digitale dell’immagine.
Flavio Caroli: Io l’ho rivisto in tempi recenti, non ebbe grande fortuna al tempo, ed è un film bellissimo, in primo luogo per la recitazione; poi quando si vede la scena della vendetta ed il paesaggio è colorato di giallo, da una parte c’è l’amore, l’altra metà dello schermo è colorato di rosso, insomma un’idea assolutamente geniale. Antonioni già procedeva con tecniche digitali ma lo faceva con pennello e colori.
Flavio Trinca: come si faceva un tempo sul negativo, si colorava a mano(…). La ringrazio anche del suggerimento: andrò a rivedere il film di Antonioni.
Introduco ora per il suo intervento il professor Guido Vittorio Zucconi che è stato fino a pochi mesi fa professore ordinario di storia dell’architettura allo IUAV di Venezia, nonché Presidente dell’Associazione italiana di Storia Urbana. Si è laureato in Architettura al Politecnico di Milano e alla Princeton University. È uno studioso di storia dell’architettura, della città e dell’urbanistica.
Ha pubblicato importanti monografie di architetti contemporanei. Il suo campo di ricerca è incentrato principalmente sull’architettura italiana del’800 e del 900. Credo che oggi voglia affrontare in modo originale il tema del rapporto tra architettura moderna contemporanea, paesaggio e ambiente andando a scardinare forse alcuni nostri miti.
Guido Vittorio Zucconi
Grazie a voi, grazie a Flavio Trinca per avermi invitato, e anche perché credo che la scelta di alcuni materiali che ha fatto nei filmati e nelle foto illustrate, sia particolarmente efficace e mi permette di introdurre, anzi ha già introdotto, una serie di temi che tratterò. Quindi in qualche modo agevolerà il compito che mi è stato affidato.
È chiaro che in un certo momento della storia dell’umanità, vi sia stata una sorta di rottura con il contesto naturale. La stessa idea di città rompe con una tradizione costruttiva che si basava sui materiali e sulle tecniche consolidatesi in loco.
Arrivo immediatamente a un momento scioccante, traumatico: quello dell’avverarsi, dell’apparizione dell’architettura moderna, intesa in senso sia stilistico che cronologico, con i suoi araldi, con i cosiddetti maestri del movimento moderno; con l’idea di recidere, nel nome della rottura con la tradizione, qualsiasi possibile legame con l’ambiente con il paesaggio, ma direi anche con il contesto.
Le Corbusier, nonostante abbia più volte nominato la città radiosa, la città verde, in realtà ha fortemente sostenuto questo carattere apodittico, isomorfico; l’architettura deve avere un suo carattere e non poteva scendere a patti, o stabilire relazioni con l’intorno.
La carta d’Atene, un documento che in realtà Le Corbusier si cucina in solitudine nel 1942, parla di “armonia con il paesaggio”, ma in realtà è un riferimento ideologico e dopo tornerò su questo termine. Armonia, è qualcosa che dovremmo cercare di evitare, un termine scivoloso che non rende l’idea.
I cosiddetti grandi maestri dell’architettura moderna, Mies, Gropius,ed Hilbersteimer – soprattutto, che ha rappresentato il coté urbano – ci hanno presentato queste scioccanti immagini della città futura, nelle quali il contesto non entra mai.
Mies e Hilbersheimer, sono stati sempre vicini, entrambi si trasferiscono in America a Chicago.
Introducendo il lavoro di Mies, se guardiamo ad alcune opere, come la Villa Tugendhat a Brno, vediamo un tentativo di adeguarsi non al contesto, ma alle condizioni naturali. In questo caso Mies rinuncia ad avere un prospetto vero e proprio per seguire l’andamento del pendio. La villa ha questo modesto approccio con la strada ma poi scende; vediamo la sezione, per avere poi sul prato, che occupa la parte più posteriore dell’edificio, il fronte principale. È un modo per adeguarsi al pendio che sembra un aspetto secondario ma in realtà entra in una dialettica con un contesto caratterizzato.
Davanti a tale scempio, a questo carattere fortemente provocatorio dell’architettura moderna, Bruno Zevi nel 1950 pubblica la “Storia dell’Architettura Moderna”, una delle tesi fondamentali è che Le Corbusier, Mies van der Rhoe, Hilbersheimer hanno rappresentato l’infanzia, una fase tutta dimostrativa, seguita da un’altra fase, che definirà “organica”, in cui l’architettura è in grado di entrare in un colloquio se non addirittura di entrare in armonia con il contesto.
Cita innanzitutto la “Casa sulla Cascata” di Frank Lloyd Wright 1937. Questa immagine, abbastanza scioccante, introduce alcuni concetti. Io non so se tratti di armonia, se si tratta di assecondare la natura o meno. Certamente Wright punta all’idea di un progetto forte, un elemento quasi scultoreo collocato in un contesto naturale molto caratterizzato.
In questo caso Wright inventa un sistema che sarà replicato non soltanto da lui ma da altri architetti. Guardate quella pietra sbrecciata che appartiene al suolo, sembra sorgere direttamente dalla terra, e sostiene la parte fondamentale, quella che immediatamente attrae il nostro occhio, colorata di bianco, di colori chiari. Una sorta di piedistallo naturale sul quale Wright colloca questo attraente oggetto architettonico.
Ecco i disegni, ecco il plastico; tra gli altri cita anche Alvar Aalto, in questo rapporto con la natura. Alvar Aalto usa materiali locali, fa sempre in modo che le sue architetture siano fotografate in mezzo ai pini di Finlandia; in realtà anche in questo caso, non so quanto ci sia di quello che possiamo definire rapporto stretto con la natura.
Un altro modo per rappresentare un possibile rapporto con la natura è all’interno dell’edificio stesso, il padiglione finlandese del 1937 all’Esposizione di Parigi viene sempre citato e dallo stesso Zevi riconosciuto, come un buon esempio di rapporto con la natura; la natura viene introiettata in qualche modo nelle immagini che troviamo dentro il padiglione, al di la’ dei materiali che sono materiali lignei, che vengono dalla tradizione finlandese e rappresentano parti di paesaggio. Questo metodo, che ho definito di Wright, lo troviamo anche in tante altre occasioni. Un altro esempio che cita Zevi è l’architettura californiana – il Bay Region Style – in particolare Schindler e Neutra. Qui vediamo Neutra, che tra l’altro in questo caso lavora per lo stesso committente della “Casa sulla Cascata” a Palm Springs. Anche lui usa il materiale della terra del luogo per costruire un edificio che, rispetto a questo, si caratterizza poi in modo netto e definito.
Lo stesso Wright in Taliesin West – siamo tra la fine degli anni trenta e l’inizio degli anni quaranta – usa questo piedistallo naturale sul quale collocare questa specie di struttura.
Restiamo sempre in California: qui siamo negli anni 50, Pierre Koenig, allievo di Neutra, vedete come anch’esso giochi con il pendio. È una struttura su diversi livelli e fa entrare il paesaggio dentro l’architettura della casa. Questo è un altro modo di relazionarsi con il paesaggio.
In conclusione, voglio dire questo: più che di armonia – termine scivoloso su cui possiamo avere mille tipi di opinioni diverse – dovremmo parlare di forme interessanti, di interazione con il sito; non soltanto riferibile a contesti naturali ma anche a contesti urbani, a contesti ricchi di suggestioni; in questo caso gli esempi che ci ha mostrato Flavio Trinca sono molto calzanti: sia le Terme di Moretti e ancor di più l’edificio di Libera a Capri ci danno immediatamente l’idea di una relazione molto intensa con un contesto fortemente caratterizzato.
Questa forma di interazione deve essere colta dallo spettatore; chi osserva deve coglierne la dialettica; questo, secondo me, è uno dei compiti che l’architettura dovrebbe darsi.
Flavio Trinca: la ringrazio Professor Zucconi per questa bellissima comunicazione, mi fa molto piacere che abbia colto il senso di quello che volevo trasmettere in questa sessione.
Sono d’accordo con lei su quanto il termine armonia possa essere scivoloso; è molto importante il tema dell’interazione, oggi è ancora più significativo perché non si tratta più esclusivamente interazione fisica, materiale, ma anche di di tipo empatico, sociale e se vogliamo anche politico.
Dobbiamo ricominciare a fare “politica” con la nostra architettura: politica intesa nel senso più alto del termine. Come ha giustamente notato lei, l’interazione presente nella casa di Malaparte/Libera, o nelle architetture di Moretti, in particolare quelle che abbiamo mostrato, è completamente differente da quella appunto della famosa ed esageratamente decantata – dal punto di vista della sua identificazione del paesaggio – “Casa sulla Cascata” di Wright; bellissima opera di architettura che tuttavia, a mio avviso, risulta poco dialogante e interattiva con lo stesso paesaggio.
Gudo Vittorio Zucconi: Vorrei aggiungere qualcosa. Il libro di Zevi, in questa sua indicazione organica per il futuro dell’architettura, in realtà è parte di una reazione generale che produce altri frutti: uno è un libro che abbiamo dimenticato e che secondo me andrebbe ristampato e che uscì nel 1953; si chiamava Le Pietre delle Città d’Italia. L’autore è Francesco Rodolico, un geologo, e sostiene che, al di là della volontà di camuffare, di allontanarsi dal paesaggio, dalla storia, tutte le città rivelano in trasparenza, attraverso i propri materiali, questo rapporto con il Genius Loci. L’esempio più evidente che fa è nelle Marche, il passaggio dalle Marche in laterizio ad Ascoli in pietra grigia, in pietra basaltica.
Un’altra reazione è il ritorno all’edilizia rurale. In tutti i paesi del mondo, Italia compresa, tra gli anni 40 e gli anni 50 escono degli studi sull’edilizia rurale, come se si volesse recuperare un rapporto con il Genius loci, con la tradizione e quindi con il paesaggio.
Flavio Trinca: anche questa è una suggestione molto interessante. Non è un caso che tra le immagini abbiamo selezionato anche delle foto di Matera, che conserva forse più di tutte le città del nostro paese, l’essenza antica, storica, primigenia; due sassi si differenziano nella trasformazione: grotte che diventano case, ed è questo il principale effetto dell’uso dei materiali.
In precedenza ci è stato raccontato dei primi materiali da costruzione, costituiti da fango e paglia: i primi mattoni che danno luogo alla prima forma di città. Penso anche alla distinzione che esiste tra il senese, l’orvietano e il Lazio: si passa dalle argille che danno luogo ai mattoni, alle crete senesi, al tufo dell’Altopiano dell’Alfina, di tutta la zona vulcanica a nord del Lazio.
È dunque evidente come, in qualche modo, tutte le architetture contengono al loro interno il seme, il germe, della loro natura, del contesto in cui sorgono.
Adesso introdurrò un relatore che per motivi personali non è presente oggi qui.
Deni Karavan è un artista ambientale che molti di voi conosceranno anche perché molte sue opere sono state realizzate in Italia.
Pur non essendo qui con noi, ci ha gentilmente inviato un suo contributo, un film –“Port Bou”, girato da Jean Anouilh – che illustra una sua opera, Il Memoriale a Walter Benjamin Port Bou in Spagna, in cui Deni Karavan racconta l’opera e, soprattutto, quali sono le caratteristiche della sua ricerca poetica. Vi leggo una brevissima nota biografica di Deni Karavan, che è uno scultore israeliano nato a Tel Aviv. Una cosa che mi ha incuriosito molto è che il padre era architetto paesaggista della città di Tel Aviv: forse è da questo imprinting famigliare che lui ha ereditato la sua sensibilità all’ambiente, al paesaggio, alle forme della natura.
A Deni Karavan si deve in qualche modo il concetto stesso di arte ambientale, di cui è considerato uno dei precursori. Le sue opere sono site specific, cioè sono opere costruite espressamente per un ambiente che lui esplora in tutti i modi.
È stato definito un archiscultore: le sue opere sono dei “monumenti specifici” che spesso fondono simboli e miti con la natura del luogo da cui la sua arte trae principale aspirazione. Mi piace descrivere la sua opera attraverso le sue parole. Deni Karavan dice:
“Mi sforzo di iniziare dalla fonte, dalle radici e seguo scrupolosamente tutte le fasi del lavoro, dall’inizio alla fine. Questo è il motivo per cui la maggior parte delle mie opere esistono solo attraverso e per il luogo in cui sono state create. Nell’intraprendere il lavoro cerco di iniziare dall’ambiente esistente, senza preconcetti, né sulle forme né sui materiali. A mio avviso non ci sono forme o materiali migliori rispetto a tutti gli altri”.
(proiezione del documentario “Port Bou di Jean Anoulih & Dani Karavan”)
Flavio Trinca: nel ringraziare Deni Karavan per averci fornito questo suo contributo, mi piace evidenziare nuovamente la capacità di quest’artista di farci ragionare profondamente su alcuni temi.
Nelle sue opere Deni Karavan mette assieme il paesaggio, l’ambiente, il luogo, ma anche i simboli e i significati che a questi luoghi possono essere attribuiti.
Quest’opera in particolare nasce da una storia anche molto cruda: Walter Benjamin, che scappava dalle persecuzioni naziste, attraverso la Francia arriva in Spagna, sta per imbarcarsi per gli Stati Uniti d’America e proprio lì a Port Bou, all’improvviso ed inspiegabilmente, si uccide. Walter Benjamin è conosciuto in tutto il mondo probabilmente con la sua opera più famosa che è “Passages” che, tradotto in italiano, diviene “I Passaggi di Parigi”, un libro dove lui rimpiange la vecchia Parigi che, prima degli interventi del barone Haussmann, era fatta di vicoli malfamati ma ricchi di esperienze umane.
Di nuovo un artista mette assieme significati forse irrazionali ma che ci possono far ragionare e riflettere sulle possibilità reali che abbiamo di pensare l’abitare in modo differente.
Facendo un salto molto molto grande di tempo e di luogo, introduco ora Chen Song, architetto cinese che vive e lavora in Cina ma si è laureata in Italia alla Sapienza; ora è professore associato alla Jiliang University. Chen Song è principalmente impegnata nel lavoro di ricerca nel settore dell’architettura, che include l’evoluzione e lo sviluppo delle aree residenziali urbane, il rinnovamento e il riutilizzo delle aree dei rifiuti urbani e la progettazione del paesaggio urbano e rurale. Chen Song ci parlerà della “Città Proibita”, della costruzione di un complesso paesaggio urbano, e di come questo, dopo seicento anni di vita, continui a perdurare anche nei suoi ruoli e nelle sue funzioni.
Chen Song
Grazie, sono felice di partecipare a questo convegno, con tanti architetti. La Città Proibita, in quanto complesso architettonico antico con la struttura in legno più grande e meglio conservata al mondo, ha un alto valore architettonico e paesaggistico.
La mia relazione sarà divisa in tre parti.
1– La Città Proibita è un complesso di palazzi imperiali costruito durante le dinastie Ming e Qing della società feudale cinese, ora è diventata il Museo del Palazzo di Pechino ed è aperta al pubblico.
La sua costruzione cominciò nel 1406 e venne completata nel 1420.
La Città Proibita è lunga 961 metri da nord a sud e larga 753 metri da est a ovest, con una superficie di circa 725.000 metri quadrati; la sua area di costruzione è di 155.000 metri quadrati. Il palazzo è circondato da un muro alto 12 metri e lungo 3400 metri, circondato da un fossato largo 52 metri, l’insieme forma un castello fortificato.
Gli edifici del palazzo della Città Proibita presentano tutti di struttura in legno, tetti di tegole smaltate gialle, base in pietra blu e bianca, decorati con dipinti dai colori brillanti. Vi sono quattro ingressi, quello principale è la Porta Wu. La sua costruzione è durata 14 anni, e fu costruita sulla base del palazzo di Dadu nel periodo Yongle della dinastia Ming. Come gruppo di palazzi reali, ha attraversato le dinastie Ming e Qing per più di 500 anni. Con il suo stile architettonico cinese classico e tradizionale è il più grande e completo complesso di palazzo reale antico in Cina. È stato classificato come “patrimonio culturale mondiale” dall’UNESCO nel 1987.
Il monomero dell’antica architettura cinese può essere suddiviso in tre parti: la base, il corpo e il tetto. Tutti gli edifici importanti sono costruiti sulla base, come la sala della Suprema Armonia, che è costruita sull’alta base tripla. La forma piana del singolo edificio è data per lo più dal rettangolo, dal quadrato e dal cerchio. Queste diverse forme piane giocano un ruolo importante nell’immagine della facciata di un singolo edificio. Anche i tetti degli antichi edifici cinesi sono divisi in diverse categorie e rappresentano diversi gradi di costruzione. Essendo costituita da un gruppo di edifici architettonici con struttura in legno con centinaia di anni di storia, la Città Proibita ha molti problemi nella salvaguardia e nella fruizione degli edifici, è quindi in uno stato di costante riparazione e manutenzione. Il progetto di manutenzione della città proibita aderisce a quattro principi: rimozione dei pericoli nascosti, conservazione degli oggetti originali, intervento minimo e configurazione simultanea delle infrastrutture.
Per ogni singolo edificio, la forma, la struttura, il materiale e la tecnologia di realizzazione originale dovrebbero essere mantenuti nei seguenti aspetti; è importante preservare l’integrità degli ambienti interni di quelli esterni nonostante le nuove forme di fruizione di questo complesso.
Da quando il Museo del Palazzo è stato istituito, nel 1925, sono state aggiunte alcune infrastrutture necessarie: ad esempio, elettricità, acqua potabile e sistema antincendio, che formano 11 condotte. Sono necessari per la sicurezza, la gestione del Museo del Palazzo e per l’apertura ai visitatori. Tuttavia, poiché queste infrastrutture di servizio sono aumentate negli ultimi 80 anni, ci sono evidenti difetti nella pianificazione e nel layout. Nella manutenzione complessiva è necessario migliorare la disposizione degli impianti per renderla maggiormente integrata con il gruppo edilizio.
2 – La Città Proibita è un giardino reale classico tradizionale, quindi le piante hanno le caratteristiche peculiari del tipico giardino reale. Anche le piante e i paesaggi della Città Proibita hanno profonde connotazioni storiche. Sono speciali testimoni storici e culturali viventi. L’arte del giardino cinese segue il pensiero della filosofia classica cinese, dove “la natura” è “bellezza”. Il giardino della Città Proibita ne è un tipico esempio; vi è un uso efficace di tutti i tipi di scenario e la combinazione di “virtuale” e “reale”, “dinamico” e “statico”. C’è inoltre una profonda integrazione di architettura e giardino che li rende parte l’uno dell’altro.
Situata nella pianura della Cina settentrionale, la Città Proibita ha un clima monsonico temperato caldo. La temperatura media annua è di 11-12° C e le piogge si concentrano principalmente in estate. Le specie vegetali sono molto ricche, principalmente alberi e arbusti. Il paesaggio della Città Proibita è basato sulla ricerca artistica dell’armonia tra uomo e natura peculiare dell’antica Cina e contiene la bellezza della poesia e della pittura. Il cortile interno ha un gran numero di piante; ci sono anche giardini rocciosi e pietre; progettazione degli antichi giardini reali cinesi, le piante e le rocce sono le forme base del paesaggio e spesso appaiono insieme. La forma del giardino imperiale è il quadrato, la disposizione dell’edificato seguiva lo schema del palazzo, cioè gli edifici primari e secondari erano disposti in uno schema simmetrico. Anche la disposizione della strada del giardino era in una forma geometrica verticale e orizzontale, mentre la piantumazione di fiori e alberi era relativamente casuale. Molti aspetti vegetazionali sono stati progettati anche nell’edificio d’angolo della Città Proibita, nella quale l’integrazione di alberi ad alto fusto e mura non solo arricchisce l’effetto visivo dell’edificio, ma ammorbidisce anche la struttura girevole del castello d’acqua. Sullo sfondo del fossato, piante e architettura presentano una naturale bellezza artistica.
Ci sono 18 ponti nella Città Proibita. L’acqua nella cultura classica cinese ha spesso il significato di ricchezza, quindi molti giardini classici sono dotati di acqua. I ponti di pietra costruiti sull’acqua sono spesso scolpiti con motivi artistici. Nel cortile classico, il ponte non ha solo la funzione di passaggio per le persone, ma ha anche quella decorativa.
Il ponte in pietra nel giardino imperiale della Città Proibita è dotato di assorbitori d’acqua, il ruolo degli animali che bevono l’acqua è quello di regolarne la quantità.
Le incisioni su pietra caratterizzano il paesaggio della Città Proibita. La maggior parte delle sculture utilizzano pietre altamente plastiche come marmo e granito. Inoltre, come Palazzo Imperiale, simbolo di potere, la pietra più utilizzata in generale è il quarzo bianco, poiché gli elementi scolpiti in questa pietra sono quelli più raffinati.
Le porte e le finestre sono la parte più distintiva dell’architettura tradizionale cinese, riflettendo la connotazione storica, l’implicazione estetica e la bellezza spaziale della cultura tradizionale cinese.
3 – La Città Proibita può rappresentare un riferimento nella progettazione urbana contemporanea e nella pianificazione del paesaggio. Le idee estetiche dei giardini classici incarnano effettivamente il concetto di sviluppo sostenibile, della protezione della natura e dell’ambiente ecologico. Ciò che questo pensiero sottolinea è l’unità tra uomo e natura. Nella società moderna, non dovremmo compromettere l’ambiente, come montagne e fiumi, mentre costruiamo case su larga scala per soddisfare lo spazio vitale delle persone. Nella costruzione di un’area residenziale, il rapporto armonioso tra edifici, montagne, acqua, piante e alberi dovrebbe essere considerato prioritario; gli edifici residenziali e le relative strutture di supporto dovrebbero essere organizzati in base alle condizioni locali, alle caratteristiche specifiche del contesto. La combinazione di paesaggio naturale e paesaggio artificiale e la combinazione di fiori, piante e alberi, può formare il paesaggio di un’area residenziale, in un ambiente spaziale dinamico e statico, che applica l’idea del giardino classico alla moderna area residenziale.
Il concetto di giardino classico può essere un utile riferimento nella progettazione della piazza nella città moderna: si dovrebbe prestare maggiore attenzione alla comodità delle persone, al rapporto tra gli edifici circostanti e l’ambiente naturale, al concetto di unità organica delle attività dei cittadini. L’ecologia e la natura dovrebbero essere al centro di ogni riflessione e il concetto tradizionale di “altezza” dovrebbe essere abbandonato. Ad esempio, nella costruzione della piazza della città, perseguiamo ciecamente la scena magnifica, distruggendo così la topografia originale e ignorando l’andamento naturale e la morfologia del terreno. Da un lato questo ha causato danni all’ambiente, dall’altro bisogna riconoscere che la comodità dei cittadini non è aumentata.
Nel processo di costruzione del parco urbano, dovremmo prestare attenzione all’estrazione del paesaggio naturale, combinarlo con la cultura e la filosofia tradizionale, elevare il pensiero paesaggistico.
Attraverso la trasformazione del terreno, utilizzare la disposizione di rocce, corpi idrici ed edifici, per creare un modello spaziale a scala moderata; impostare strade tortuose, utilizzare curve e tornanti per creare un senso di isolamento. Nel processo di costruzione di un parco urbano moderno, dovremmo prestare attenzione alla costruzione dell’ambiente generale, tenendo conto della luce, della temperatura, della velocità del vento e di altri fattori che possono influenzarne lo spazio; il colore e il recinto, attraverso una ragionevole collocazione delle specie vegetali, il tutto con l’obiettivo di realizzare uno spazio adatto alle persone per passeggiare, giocare e riposare. La combinazione di tradizionale e moderno, di natura, architettura e arte, attraverso la moderna tecnologia ingegneristica può essere introdotto nella piazza urbana, combinando l’emozione con il paesaggio che cambiando scenario passo dopo passo, unisce la piazza moderna e la tradizione classica.
Daniela Gualdi: in primo luogo un grande saluto a una cara amica; questa è inoltre l’occasione per comunicare ai quasi 18 mila iscritti, il lavoro nella Commissione Esteri dell’Ordine degli Architetti di Roma: infatti abbiamo appena concluso con Chen Song un Memorandum of Understanding tra l’Ordine degli Architetti di Roma e la China Jiliang University.
Speriamo dunque di poter avere tante altre occasioni di incontro e di scambio culturale. Grazie.
Flavio Trinca: Direi di concludere gli interventi di questa sessione con Carla Zhara Buda, che è responsabile del centro archivi del MAXXI Architettura; dal 2006 si occupa della archiviazione dei fondi di architetti e ingegneri al MAXXI e ne cura l’ordinamento, la rendicontazione e la pubblicazione, seguendo contemporaneamente tutte le attività del museo volte alla valorizzazione delle collezioni. L’intervento di Carla è particolarmente significativo; abbiamo fatto un excursus storico, siamo partiti dai primordi dell’uomo per arrivare alla contemporaneità; e poiché molto sembra dover essere ripensato, anche ricollegandoci alle esperienze virtuose che hanno caratterizzato il modo di abitare la terra nel passato, la funzione e il ruolo degli archivi può, in tal senso, rivelarsi fondamentale.
Inoltre, mi piace pensare che l’intervento di Carla sia anche quello di una ricongiunzione alle origini: ci parlerà di cantiere di architettura; come sostiene Franco Purini, il cantiere suggerisce l’immagine di quelle che saranno le rovine dei nostri progetti e dei nostri edifici. Grazie Carla
Carla Zhara Buda
Grazie. Io devo ringraziare innanzitutto voi curatori di questa giornata di avermi invitata e di avermi dato l’opportunità di partecipare a queste considerazioni. Mi avete tirato un po’ fuori dal nostro lavoro quotidiano, sempre impegnativo. Invece queste giornate sono importanti per dare nuova linfa vitale alle nostre attività. Il MAXXI, dall’atto della sua nascita, ha trasformato il suo territorio, il quartiere nel quale si è andato a inserire, il Flaminio.
Il MAXXI è un grande Museo Nazionale che raccoglie al suo interno sia un museo di arte che di architettura. Questa che vi mostro è la sala del nostro centro archivi di architettura che rappresenta il cuore del museo di architettura dove sono raccolte e le collezioni disponibili anche alla consultazione.
L’immagine che vediamo proiettata è una vista che ben rappresenta come il MAXXI sia andato ad inserirsi nel tessuto di Roma, nell’ansa del Tevere che accoglie il quartiere Flaminio, in un’area precedentemente occupata e caratterizzata dalla presenza di caserme. Alla fine del secolo scorso, per una precisa volontà dello Stato Italiano, è stato bandito un concorso ed è stata promossa la costruzione di questo museo nazionale che si è inserito, rinnovando completamente l’area, laddove c’erano queste caserme.
Questa è una vista dell’epoca. È stato bandito il concorso e i 15 progetti finalisti sono entrati a far parte delle nostre collezioni; i modelli, i documenti, gli elaborati di concorso ci sono stati consegnati dai 15 progettisti. Tra questi, la vincitrice Zaha Hadid, il suo concept di progetto, già rappresenta perfettamente quelle che sono le linee sinuose e distintive del MAXXI.
Un’idea di luogo in cui non esiste un percorso precostituito e che caratterizza, a 10 anni dall’apertura, anche la storia all’interno del Museo MAXXI; le nostre attività hanno sempre numerosissime forme, una grandissima varietà; mi piace pensare che, anche gli spazi condizionano effettivamente questo nostro modo di concepire e vivere le attività culturali.
Questi sono gli schizzi, gli studi preliminari e propedeutici alla realizzazione del museo, facciamo una carrellata e ripercorriamo quel periodo di storia che ha dato origine all’attuale edificio.
Il cantiere è stato documentato da un progetto specifico che si è chiamato appunto “cantiere d’autore”, che venti fotografi professionisti hanno sviluppato in più momenti, ciascuno con il proprio punto di vista autoriale, dando luogo a una documentazione che è rimasta nelle nostre collezioni.
E così è anche possibile ripercorrere e rivivere quello che non si può più vedere. Questa è la caratteristica fondamentale di quello che abbiamo anche nei nostri archivi: nell’archivio si può andare a vedere quello che non è più possibile vivere direttamente.
Vediamo nelle immagini la posa della prima pietra; a seguire una sequenza su come è effettivamente venuto su il museo che attualmente possiamo visitare; ovviamente non possiamo più godere di queste viste cosi ‘particolari.
Ed eccolo qua, mentre viene costruito in una delle sue grandi gallerie, quando era ancora in versione scheletrica e senza rivestimenti; ecco la sua formazione e l’inserimento nel contesto del quartiere. Tutte queste immagini sono rimaste nella nostra collezione nella parte della fotografia, e resteranno per sempre ad attestazione di questo importante momento che è durato, dalla fase di concorso all’inaugurazione, 10 anni.
Oggi andando nel quartiere Flaminio e passeggiando, abbiamo da una parte l’auditorium di Renzo Piano, dall’altro il MAXXI di Zaha Hadid, il Ponte della Musica, una serie di nuove architetture che hanno profondamente modificato l’area, noi lo vediamo vivendoci tutti i giorni.
Quindi, l’impatto dell’architettura modifica anche la vita all’interno del territorio.
Questo è il nostro fronte-strada, mi affascina molto questa immagine, perché accosta la parte preesistente e tradizionale della caserma, con l’innesto del nuovo: l’aggetto in cemento parte del nuovo museo si va ad agganciare alla struttura storica della caserma.
(…)Questa immagine rappresenta invece la vita all’interno dell’edificio. Tra le tante fotografie che abbiamo nella collezione c’è anche la fotografia dello staff che ha inaugurato il MAXXI.
All’interno degli archivi si rivive la storia degli spazi, delle architetture e degli esseri umani. Le nostre attività sono molto legate alla conservazione ed alla catalogazione, finalizzate soprattutto alla valorizzazione di questo straordinario patrimonio culturale; quindi sia la consultazione, che l’esposizione in mostre e prestiti- scambi con istituti culturali e tutto quello che può dare nuova vita e valore a questo grandissimo archivio.
Attualmente abbiamo oltre 90 fondi di architetti e ingegneri come vedete da queste immagini dei nostri depositi; una consistenza molto importante di materiali e soprattutto anche una grande varietà. Quindi abbiamo visto il MAXXI come un elemento che ha trasformato il territorio di Roma e come un contenitore culturale di grande importanza.
Illustro ora una breve sequenza per tornare al concetto di cantiere, di documenti di situazioni che non sono più visibili. Per esempio queste fotografie dal fondo di Sergio Musmeci, di quel Ponte sul Basento che prima abbiamo visto in bellissime fotografie contemporanee, queste proiettate sono invece le foto storiche del cantiere. Questo è Sergio Musmeci presente sul cantiere e nel momento dell’inaugurazione dei lavori.
Per analogia possiamo vedere all’interno dei nostri archivi anche altre importanti documentazioni di cantiere. Parlo dell’altro grande archivio che abbiamo dell’ingegnere Pier Luigi Nervi.
Vediamo proiettate le fotografie che testimoniano la costruzione dell’aula-udienze in Vaticano, immagini non soltanto delle strutture in corso di edificazione ma anche delle persone che partecipano e contribuiscono alla realizzazione di queste straordinarie opere.
Per noi sono temi particolarmente importanti perché sono molto vicine al nostro territorio, al contesto del quartiere Flaminio. Qui rappresentato: il grande momento di rifacimento di sistemazione per le Olimpiadi del ’60, con la costruzione del Palazzetto dello Sport, lo Stadio Flaminio, il Viadotto di Corso Francia, si tratta della fase precedente degli anni ’60, che ha riorganizzato un’area che, come vedete da queste immagini d’epoca, non era ancora urbanizzata.
Queste sono immagini di un altro nostro vicino di casa, dall’altro lato del Tevere, dal fondo di Enrico del Debbio, la sistemazione del Foro Italico e quindi dello Stadio dei Marmi; altre immagini che ci permettono vedere quello che ovviamente non è più visibile, il cantiere. Si trattava di un’area da bonificare per poter fare costruzioni di quel tipo;(…) vediamo le palificazioni e quanto si è dovuto lavorare in tal senso. Abbiamo le attestazioni dei marmi che da Carrara sono arrivati via Tevere, proprio come facevano gli antichi romani, hanno portato questi Marmi fino ad arrivare all’area dell’attuale Foro Italico. Abbiamo fotografie che testimoniano le attività di cantiere e anche i sistemi, come lavoravano, come potevano realizzare opere così importanti. C’è questo e tanto altro; parlando, mi sono venuti in mente tantissimi collegamenti, ma tutto questo è consultabile nella nostra sala studio che è sempre aperta su appuntamento ed è anche visibile nel nostro database on-line andando sul sito del museo MAXXI.
Solo un’ultima cosa: si parlava del concetto di bellezza, di questa ricerca, questi sono dei concetti che noi possiamo rinvenire anche nell’archivio di Pier Luigi Nervi e di Sergio Musumeci, nei quali troviamo una connessione con la natura e con la ricerca della forma bella, perfetta, e troviamo moltissimi collegamenti con gli elementi naturali. Faccio solo un esempio: in riferimento alle immagini di Brasilia, l’Ambasciata d’Italia a Brasilia di Pier Luigi Nervi è caratterizzata dalla presenza di questi pilastri tipici della sua ingegneria: prima di realizzarli l’ingegnere ha voluto visitare le foreste dell’Amazzonia per riprendere e riproporre in qualche modo quegli alberi, e quell’ambiente.
Quindi, questo collegamento natura, architettura, ricerca di una bellezza strutturale dell’opera, ce l’abbiamo nitidamente rappresentato anche negli archivi dei nostri ingegneri.
Flavio Trinca: Ringrazio Carla anche perché chiude con questo bellissimo disegno di Carlo Aymonino del Campidoglio, e soprattutto perché mi sembra ci sia un collegamento molto stretto tra le opere degli artisti citati e il momento del cantiere. Il cantiere diventa la costruzione di un paesaggio temporaneo, come tanti interventi che abbiamo visto degli artisti: quello di Christo prima di tutti, ma anche lo stesso intervento di Consagra a Matera di cui parlava il professor Caroli.
La ringrazio. Approfitto per ringraziare anche tutto il reparto tecnico che ci ha supportato, grazie alle traduttrici. Grazie a tutti.
Visual Editing:
Giuseppe Felici, Redazione AR Web
[1]C. MALAPARTE, “Città come me”, prima pubblicazione in ‘Corriere della Sera’, 14 febbraio 1937; ultima ristampa in ‘Il meglio dei racconti di Curzio Malaparte’, a cura di L. MARTELLINI, Oscar Mondadori 1991
[2] F. L. Wright, Casa Kaufmann, Bear Run, Pennsylvania (USA), 1935-39
[3] La Convenzione Europea del Paesaggio è stata adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa a Strasburgo il 19 luglio 2000 ed è stata aperta alla firma degli Stati membri dell’organizzazione a Firenze il 20 ottobre 2000. Si prefissa di promuovere la protezione, la gestione e la pianificazione dei paesaggi europei e di favorire la cooperazione europea. La Convenzione è il primo trattato internazionale esclusivamente dedicato al paesaggio europeo nel suo insieme.Si applica a tutto il territorio delle Parti: sugli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani. Riconosce pertanto in ugual misura i paesaggi che possono essere considerati come eccezionali, i paesaggi del quotidiano e i paesaggi degradati. Ad oggi, 32 Stati membri del Consiglio d’Europa hanno ratificato la Convenzione e sei l’hanno firmata.
[4] La Città Proibita, Palazzo imperiale delle dinastie Ming e Qing, Pechino (Cina), 1406-1420
[5]Christo e Jeanne-Claude è il progetto artistico comune dei coniugi ChristoJavašev (1935-2020) e Jeanne-Claude Denat de Guillebon (1935-2009) fra i maggiori rappresentanti della Land art e realizzatori di opere su grande scala.
[6] Alberto Burri, Il Grande Cretto, Gibellina 1984-89
[7] James Turrel, Roden Crater Project, Flagstaff, Arizona (U.S.A) 1974, in corso
[8]Richard Long ( n. 1945), fotografo e scultore britannico, esponente di primo piano della Land Art
[9] L’arte povera è un movimento artistico sorto in Italia nella seconda metà degli anni sessanta del Novecento al quale aderirono autori di ambito torinese.
[10] Giuseppe Penone, Alpi Marittime (1968), serie fotografica che documenta le performance dell’artista nel bosco di Garessio,volte a sondare le possibilità che l’uomo ha di interagire con la natura e di modificarla, intervenendo, ad esempio, nel processo di crescita degli alberi
[11]Michael Heizer (n. 1944), artista statunitense specializzato in sculture di grandi dimensioni e lavori di Land Art.