Incuriosisce e quasi sorprende questo scritto, affermando nel titolo il declino della città globale.
Viene probabilmente spontaneo chiedersi: perché tramonto?
Cosa sono le nostre città, se non globali?
Viviamo nell’era della prossimità, dell’annullamento delle distanze fisiche. Le nostre esistenze sono segnate dalla velocità di spostamento, dall’istantaneità della comunicazione. Siamo abituati, a volte rassicurati, dal riconoscere ovunque, nel mondo, parole, loghi, segni simili o identici a quelli che incrociamo svoltando l’angolo di casa; tutto questo siamo soliti chiamarlo globalizzazione.
Allora perché tramonto? Perché questo titolo che presagisce la fine della città globale?
Davide Galleri ci chiama a riflettere sul “fondamento ideologico – dal sapore ormai un po’ utopico e un po’ nostalgico – di quella globalizzazione che mirava a creare un mondo ecumenico, una sorta di Stato unico, immateriale, diffuso e decentrato fino al singolo cittadino tramite i mezzi di comunicazione”.
Tramonto, dunque, perché “la realtà odierna delle metropoli globali smentisce tale ambizione, dimostrando una forte continuità con i vecchi modelli urbani accentrati”.
Non è semplice tracciare i contorni delle complesse condizioni urbane dell’era contemporanea, ancor meno è facile farlo con brevità; eppure il volume di Galleri delinea un ritratto della città globale con pari sintesi ed esattezza.
Seleziona alcuni temi e su essi emette un giudizio netto, tagliente, a tratti insindacabile.
La genesi del volume è risultato della partecipazione, nel 2018, alla settima edizione del concorso “giovani critici per la critica d’architettura”, bandito da AIAC – Associazione Italiana di Architettura e Critica insieme a professionearchitetto.com.
Galleri ha vinto il premio “Nuovi talenti critici” che gli è valso la pubblicazione del breve saggio presentato al concorso, ampliato e trasformato in un rapido ma denso libro, edito da Architetti Roma Edizioni – casa editrice dell’Ordine degli Architetti P.P.C. di Roma e Provincia – e presentato di recente nel quadro dell’ultima edizione del Festival di Architettura di Roma Spam 2021.
In quest’occasione l’autore ha ripercorso, insieme con Christiane Bürklein, alcuni dei contenuti salienti dello scritto, con incursioni nitide e graffianti su città diffusamente note – Venezia, Bilbao, Dubai – argomentando il rapporto che con esse intrattengono gli architetti.
L’architettura è nella città globale strumento di potere per eccellenza; perso il suo anelito rivoluzionario, si piega alla propaganda e alle leggi del mercato: “le archistar cercano di farsi notare (…) giungendo però al risultato opposto, in cui l’omogenea piattezza visiva di ogni metropoli risulta sempre la stessa, fino a divenire un proscenio trascurabile” su cui applicare “enormi maxischermi pubblicitari che con le loro luci cangianti possono far alzare il naso a molti più visitatori di quanto non possa fare un grattacielo”.
Visitatori è la prima parola chiave: nella città globale sembrano essere spariti i cittadini, a vantaggio di turisti, ospiti, viaggiatori, passanti; come a Venezia, dove abitanti temporanei fungono da teatranti chiamati a far sembrare pullulante di vita una città che non lo è.
Maxischermo è l’altro termine saliente del discorso, riportato nel titolo stesso: nella città globale l’apparenza ha sempre la meglio sulla sostanza. Lo schermo in cui vedere e farsi vedere ha più valore – e più potere persuasivo – del supporto su cui è applicato.
Nel migliore dei casi l’architettura può sostituirsi allo schermo assumendone la valenza, come a Bilbao dove “l’opera – quella che Galleri chiama derivato mediatico e che appare persino superfluo nominare – si colloca in una zona visibile dal ponte di ingresso alla città, rappresentando il primo punto di arrivo per i turisti provenienti dall’aeroporto, e molto spesso l’unico”.
Il museo di Bilbao e l’aspetto futuristico e accattivante del brano di città che lo circonda è “nient’altro che un paravento” mentre il resto della città “resta un dormiente ex sobborgo industriale con ben poco da offrire” .
In questa condizione urbana, sintetizzabile come una scenografia indifferente e universalmente replicata davanti alla quale si avvicendano frettolosamente comparse sospinte da un ininterrotto viaggio globale, non c’è traccia della parità universale che la metropoli globale sembrava far presagire ai suoi albori.
La cittadinanza universale ha ceduto il passo a un sempre più crescente divario sociale, la parità di condizioni si è trasformata in sacche di estrema ricchezza, economica e spaziale, asserragliate all’interno di ampi territori privi di opportunità di sorta.
Dell’equilibrio e dell’uguaglianza che, attraverso disponibilità d’informazione e facilità di spostamento, avrebbero dovuto irrorare ogni singolo luogo del pianeta, non v’è traccia.
Permane e si acuisce invece il carattere di uni-direzionalità e anisotropia che caratterizzava le metropoli dello scorso secolo e che rimane il tratto saliente anche delle città globali.
Permangono forti squilibri tra ciò che è urbano e ciò che dall’urbanità è escluso. Anche all’interno della città stessa, che si presenta agli astanti nel trionfo sgargiante delle architetture dei suoi centri storici ricreati ad hoc, dei suoi business districts e waterfront, lo squilibrio tra condizioni diverse è tutt’altro che appianato.
“Se il mondo che abbiamo vissuto negli ultimi decenni ha fatto bandiera della connessione globale, della cittadinanza digitale, della geografia delle reti che sconfessa quella storica e territoriale, dall’altro lato ha indebolito baluardi della modernità, raggiunti con fatica: lo Stato di diritto, il welfare e, ancora più importante, il diritto allo spazio pubblico di qualità, quintessenza del benessere dei cittadini”.
Apologia di questa condizione è la città di Dubai: la città isola, sradicata dal suo contesto geografico ma allo stesso tempo perfettamente inserita nei flussi economici e nelle traiettorie di spostamento globali.
“A questa realtà sfuggente, priva di veri cittadini, corrisponde un apparato urbano sprovvisto di affezione da parte di un popolo stabile ma appannaggio temporaneo di genti in continuo movimento”, una città dove si è perfettamente materializzata, costruendola, quella “forbice che sempre più si amplia a separare ricchi e poveri per collocarli su isole diverse”.
La riflessione di Galleri si conclude con un breve paragrafo aggiornato alla crisi pandemica degli ultimi anni – metropoli del contagio – che rilegge in chiave sanitaria le ricadute delle dinamiche globali di vicinanza e velocità di spostamento, ponendo l’accento su quanto “la città globale sia fragile, da poter collassare sulla propria artificiosità” non appena costretta a confrontarsi con una pandemia che ha “azzerato le differenze e dimostrato la vacuità di un modello di potere umano dinanzi alle forze della natura”.
Ricco di spunti di riflessione, questo piccolo volume induce a successive considerazioni, sapientemente introdotte da poco più di cento pagine di densa e felice scrittura.
Leila Bochicchio, Redazione AR Web