Roma 1970. A cento anni dall’incoronazione a capitale d’Italia, un nuovo fermento invade le vie della città, specialmente del quadrante Nord laddove la facies architettonica e quella urbana erano ancora in stato di definizione e l’estro progettuale dei protagonisti dello scenario architettonico si poteva manifestare apertamente, strizzando l’occhio alle produzioni d’oltreoceano.
Il 1970 è un anno cruciale, rappresenta lo snodo tra il periodo precedente – caratterizzato dai grandi concorsi per opere pubbliche, dagli edifici per uffici e soprattutto dalla costruzione dei quartieri residenziali per l’edilizia economica – e l’inizio di una nuova visione dell’architettura all’interno della quale si stavano facendo largo una lenta consapevolezza del fenomeno dell’abusivismo e l’importanza del patrimonio costruito, aspetti che si manifestavano nel dibattito architettonico attraverso l’ascesa di tematiche quali quelle del restauro, del riuso e della riqualificazione del tessuto esistente.
In questo quadro si inseriscono anche le ricerche sull’abitare per la committenza privata che i progettisti mettono in pratica seguendo quel filone architettonico che prende il nome di brutalismo e che per certi versi, forse, stupirà trovare a Roma, ma che trova in realtà nella Capitale un importante terreno fertile.
Oltre alla ben nota lezione lecorbuseriana e al secondo filone inglese del movimento, meglio noto come new brutalism di cui i fratelli Smithson si fecero portavoci, un ulteriore elemento che pone la produzione romana di quegli anni nel registro delle architetture internazionali del movimento è indubbiamente l’opera di Louis Kahn che, sulla scia dei Gran Tour, intraprende un secondo viaggio a Roma nel 1950: questo soggiorno legherà indissolubilmente la sua produzione con la città eterna e viceversa. Roma è stata, infatti, la musa ispiratrice delle opere di Kahn tanto quanto le architetture di Kahn lo sono state per tutta la generazione di architetti che hanno operato a Roma tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta del Novecento in una sorta di circolo continuo dalla matrice storicistica.
Caposaldo imprescindibile del brutalismo romano è certamente la Sede dell’Ambasciata Britannica del 1971 ad opera di Sir Basil Spence che riesce nel faticoso tentativo di confrontarsi con la Porta Pia michelangiolesca attraverso un complesso di volumi in cemento armato rivestiti da pannelli in travertino che cercano un dialogo con la cromia delle mura Aureliane e che si alternano su superfici vetrate con infissi di alluminio di colore bronzo scuro.
Ma volendo offrire una panoramica degli edifici per abitazione elaborati negli anni Settanta del Novecento bisogna necessariamente citare l’architetto Saverio Busiri Vici che proprio in quegli anni era occupato nella realizzazione a Roma di innumerevoli opere tra cui case ad appartamenti, ville ed edifici dalla destinazione d’uso mista, le quali spiccano per l’innovativa ricerca aperta alle esigenze del mondo contemporaneo. Esponente della nona generazione consecutiva di architetti che porta il suo cognome, Busiri Vici ha portato a Roma ciò che aveva visto con i propri occhi nei viaggi compiuti in Europa, quando aveva avuto l’occasione di conoscere innumerevoli protagonisti dell’architettura contemporanea quali Aalto, Le Corbusier e Rudolph nonché di assistere al loro lavoro. La sua produzione è perciò emblematica dello spirito del tempo e ne è esempio, tra le altre, la villa Ronconi costruita tra il 1970-1973 in via Alessandro Magno a Casal Palocco. Qui i piani di cemento si susseguono a incastro come in una sorta di serpentone decomposto alla maniera cubista: la villa gioca, infatti, con il binomio pieni/vuoti creando giochi di luce tra loro molto armonici e, per questa sua veste futuristica, fu individuata da Dario Argento come perfetto set per il suo film Tenebre del 1982.
L’evoluzione degli stilemi portata in campo da Busiri Vici dai Ronconi è rappresentata dall’edificio pluriuso sito in viale Jonio 10 in cui la ricerca formale si struttura attraverso le movimentate dinamiche compositive dei volumi che vogliono quasi celare le diverse funzionalità presenti all’interno del progetto. Calano gli aggetti ma le tracce apposte sulla struttura in cemento, quasi come tagli, solcano la materia rendendo il complesso ancor più suggestivo e virtuosistico. Oggi l’edificio ospita Casa Betania Maria, una struttura religiosa di accoglienza per pellegrini e turisti, utilizzata anche per convegni e per esercizi spirituali, corollata inoltre da una sala mensa, varie sale riunioni e un auditorium, sfruttando in questa maniera tutto il ventaglio di destinazioni d’uso che Busiri Vici aveva previsto per l’edificio.
Spostandoci di qualche chilometro troviamo al Quartiere Salario un’opera dello studio 3C+t e una dell’Ing. Franco Tamburini: la prima abitazione si trova tra via Salaria e via Filomarino ed è un edificio in cemento armato ricco di diverse contaminazioni che prendono a riferimento le opere dei principali architetti brutalisti come Le Corbusier, Paul Rudolph e Josep Lluìs Sert. In particolare gli architetti Giancarlo Capolei, Francesco Capolei e Manlio Cavalli, in questa opera, adornano l’edificio di interessanti soluzioni volumetriche tra cui colpiscono particolarmente il trattamento delle superfici parietali – che richiama quello dello Yale Art and Architecture Building in New Haven (Connecticut) di Rudolph – e la profondità degli aggetti sul lato di via Salaria che sembrano agognare un ricongiungimento con la prospiciente Villa Ada, anche per l’intensa presenza degli elementi vegetali che li abitano.
Mentre l’opera dell’Ing. Tamburrini, che si trova poco più avanti tra via Salaria e via di Tor Fiorenza, è caratterizzata da un rigore formale accentuato, in cui spicca il trattamento dei prospetti a rigature scolpite e la diffusa presenza di fioriere, balconate e cornici delle ampie finestre.
In quegli stessi anni l’architetto Mario Stara, in collaborazione con l’arch. Giancarlo Pennestri, stava costruendo una palazzina in Lungotevere delle Armi, che verrà ultimata nel 1978, su incarico dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni: l’edificio doveva inizialmente svolgere la funzione di circolo ricreativo per i dipendenti INA ed è invece stato poi adibito ad abitazioni. Il grande blocco parallelepipedo in cemento armato è reso più armonico dalle balconate che si avviluppano intorno al volume come una sorta di cordoni che cingono e smuovono la massa muraria dell’edificio; il coronamento del corpo di fabbrica, composto da quattro piani fuori terra e uno interrato, è invece un blocco composto da elementi forati così come forati sono i quattro cilindri portanti della struttura che ospitano i vani scala di collegamento tra gli ultimi piani e il terrazzo.
La palazzina si trova in un’area nata conseguentemente all’Esposizione Internazionale del 1911 di cui è emblematica, tra le altre, l’adiacente villa Laetitia di Armando Brasini (al civico 22 di Lungotevere delle Armi) e si pone perciò in una posizione di rottura con l’ambiente circostante: lo stesso spirito anima tutte le architetture annoverate in questo itinerario che, pur distaccandosi spesso dai tessuti urbani in cui sono inserite, si collocano in una linea di ricerca architettonica internazionale, riuscendo a sollecitare ancora oggi l’interesse degli addetti ai lavori e a suscitare curiosità negli occhi di chiunque abbia modo di osservarle.
Arda Lelo
Docente di Storia dell’Architettura all’Accademia delle Arti e nuove tecnologie di Roma