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01 Maggio 2021

Roma 1960 – di Andrea Bentivegna

L’Olimpico oggi, dopo più di sessant’anni, è uno stadio diverso e assai meno suggestivo di un tempo. La pista in terra battuta, sulla quale si involò l’occhialuto Berruti, trionfatore nei 200 metri, è stata sostituita da un più moderno Tartan mentre le colombe, il cui volo incorniciò il vittorioso arrivo del velocista italiano, non si posano più sul terreno. Colpa della copertura aggiunta per i mondiali di calcio che oltretutto impedisce ormai di ammirare dalle gradinate la verde maestosità di Monte Mario scivolare verso il campo quasi si trattasse di una tribuna naturale, secondo l’idea originaria di Del Debbio.

La monumentalità del Foro Italico fu del resto al centro dell’attenzione, a cui fu affiancato, appena dall’altra parte del Tevere, il Villaggio Olimpico che con il suo funzionalismo ne costituiva l’antitetico rovescio architettonico firmato da Moretti, Libera, Cafiero, Monaco e Luccichenti. A completare il paesaggio poi l’elegante calotta semisferica del Palazzetto dello Sport e il viadotto di Corso Francia che permetteva alle auto di “sorvolare” senza intralcio il quartiere.

Di quell’estate rimangono la toponomastica “olimpica” e le quattro sculture bronzee raffiguranti Il Calcio, La Lotta, La Corsa e Il Pugilato, mirabili opere di Amleto Cataldi che impassibili, tra erbacce e oleandri, celebrano ancora il mito sportivo: sono ciò che rimane del piacentiniano Stadio Nazionale – di cui decoravano l’ingresso – demolito per il nuovo Flaminio di Nervi.

Foro Italico, Roma – Fonte: sito internet Immagini Narrate Immagini Narranti

Dalla parte opposta della città l’EUR, il quartiere, voluto da Mussolini e mai ultimato per via della guerra, venne idealmente completato proprio in occasione delle Olimpiadi. Le competizioni di scherma, ad esempio, si tennero al Palazzo dei Congressi di Libera e proprio in questa zona si costruirono due delle più straordinarie architetture dell’epoca: il Velodromo e il Palazzo dello Sport.

L’immensa volta che Nervi ideò rivaleggia da allora per dimensioni con quella del Pantheon, “il” capolavoro dell’antichità. Le sue esili nervature passarono alla storia anche per aver dato i natali – agonistici, si intende – al più grande sportivo di ogni epoca: il giovane Cassius Clay infatti conquistò qui il suo primo, grande successo prendendosi l’oro olimpico; quella stessa medaglia che verrà gettata, anni più tardi, da Alì nel fiume Ohio per protestare contro la guerra nel Vietnam. A proposito: perché non commemorare lo scomparso campione di Louisville nel piazzale antistante? Quest’immensa rotonda di calcestruzzo e vetro, che porta – ricordiamolo – anche la firma di Piacentini, rappresenta la quinta prospettica che da un lato “conclude” Roma e dall’altro accoglie chi vi giunge configurandosi come porta dalla città, non diversamente da ciò che avrebbe dovuto rappresentare il monumentale Arco di Libera, simbolo dell’Esposizione del 1942, che non vide mai la luce.

Ancor più sorprendente era forse il velodromo di Ligini. Costruito nel ’60 e definito come “il più bello e il più perfetto del mondo”, dopo aver ospitato le imprese a cinque cerchi cadde ben presto in disuso e nel 2008, tra mille proteste, venne fatto saltare in aria. Alle polemiche seguirono le indagini, e la speculazione che doveva sorgere in quest’area fu fortunatamente bloccata, così oggi ciò che ne rimane è un prato.

Tra i due siti, quello dell’EUR e il Foro Italico, si giocò il futuro di Roma. A metà degli anni Cinquanta, quando si presero le decisioni per l’assetto futuro si stabilì che il “cordone ombelicale” che avrebbe unito i due quartieri sarebbe stato un semi-anello stradale che abbracciava la città nella zona occidentale (a dispetto del PRG). La Via Olimpica, come fu ribattezzata, era anche uno stratagemma per consentire alla Società Generale Immobiliare e al Vaticano, con il prezioso appoggio del sindaco Rebecchini, di approfittare del conseguente incremento di valore dei loro terreni che casualmente si trovavano proprio tra Vigna Clara e la Magliana. Il fenomeno veniva coraggiosamente denunciato per la prima volta proprio in quegli anni (1955) dalla celebre inchiesta di Manlio Cancogni Capitale corrotta, Nazione infetta.

Scandali, corruzione e sprechi. Architetture straordinarie e opere rimaste inutilizzate eppure, malgrado tutto ciò, la XVII edizione dei Giochi Olimpici rimase una delle più straordinarie di sempre. In tutte le altre non c’è mai stata una gara di ginnastica come quella del ’60 in cui gli atleti volteggiavano tra le rovine imponenti delle Terme di Caracalla. Nessun palazzetto dello sport, nemmeno il più avveniristico del mondo, potrà esser mai paragonato alle volte millenarie della Basilica di Massenzio sotto le quali si affrontarono gli atleti della Lotta Greco-Romana.

Un continuo richiamo dei fasti antichi che tanto sarebbe piaciuto a Pierre de Coubertin che, in effetti, avrebbe voluto Roma come sede olimpica già nel 1908.

Il culmine di questo crescendo si registrò, come nella più classica delle sceneggiature hollywoodiane (sul Tevere), la sera del 10 settembre, l’ultimo giorno, a ridosso dello spegnimento del braciere. Poco più di un paio d’ore prima infatti, sotto lo sguardo severo dei Dioscuri Capitolini, mentre il sole tramontava, aveva preso il via la più importante di tutte le gare: la maratona. Quella sarà un’edizione leggendaria ricordata ancora oggi al pari dell’antica corsa di Filippide. Dopo essersi lasciati alle spalle i secolari Fori Imperiali, gli atleti si diressero verso il mare per poi tornare indietro lungo l’Appia Antica. Quando imboccarono la Regina Viarum la corsa divenne mitologia. Il duo di testa infatti avanzava nelle tenebre sul ciottolato millenario, ai lati della strada fiaccole di fiamma viva costeggiavano il percorso mentre al loro transito, quasi magicamente, si accendevano i riflettori che rivelavano al mondo la bellezza della Città Eterna: la Tomba di Cecilia Metella, la Domine Quo Vadis, Porta San Sebastiano, il Palatino e infine l’Arco di Costantino – il traguardo – si accesero uno dopo l’altro in una scenografica apoteosi.

Lì sulla strada invece si assisteva all’impresa di un etiope che scalzo come gli antichi eroi, trionfava davanti a tutti. Abebe Bikila, un soldato della guardia del Negus Hailé Selassié, sbaragliò la concorrenza presentandosi da solo al cospetto del Colosseo. Pochi metri prima, in quello che verrà interpretato come un simbolico riscatto, era transitato ai piedi dell’obelisco di Axum, tesoro di guerra sottratto proprio al popolo etiope dagli invasori italiani e solo recentemente restituito.

Andrea Bentivegna

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