Nella mitologia maya ‘Huracan’ era il dio del fuoco, del vento e delle tempeste.
La parola entrerà nei vocabolari delle lingue europee, molto più avanti, nel corso del Cinquecento, come eredità delle esplorazioni geografiche nelle Americhe, indicando il fenomeno metereologico che in italiano conosciamo come ‘uragano’. Le nature, al di là dell’oceano, erano infatti così diverse da quelle del continente europeo che non esistevano vocaboli che potessero descriverle, imponendo di fatto l’adozione e l’introduzione di parole nuove – derivate dai linguaggi dei popoli che invece abitavano già quei luoghi.
All’aneddoto etimologico della parola ‘uragano’ possiamo probabilmente associare il momento di esordio, nella scena culturale europea, del ‘selvatico’, designando ciò che nasce o si sviluppa spontaneamente, senza alcun tipo di controllo o intervento.
Il ‘selvatico’, come tutte le costruzioni culturali, è un punto di vista e come tale non esiste se non in relazione al suo opposto: la ‘civiltà’. Ecco allora nascere la dicotomia selvatico-civiltà o, se vogliamo, natura-città.
A nutrire il discorso, centenario, nel panorama intellettuale e progettuale dell’attualità, possiamo inanellare una serie di quanto mai diversi elementi. È però a partire dall’inizio del XXI secolo che si moltiplicano gli studi, che le ricerche diventano sempre più prospere ed estese, e che le pratiche delle nature urbane in chiave selvatica si fanno sempre meno rare.
Oggigiorno possiamo infatti ritrovare chiaramente una diffusa e sentita, in ogni dove e modo, la fascinazione per il selvatico, anche trascendendo (e di molto) i limiti della disciplina dell’architettura del paesaggio, tra tutte quella che più ragionevolmente dovrebbe sentirsi chiamata in causa dal tema.
Mostre temporanee si fanno carico di esporre e diffondere il tema: La Ville Fertile, presso la Cité de l’architecture & du patrimoine, nel 2011 a Parigi, esplorava l’idea di città come un grande sistema vivente, esponendo tra l’altro una trentina di progetti francesi.
Il cinema mette in scena il selvatico sul grande schermo, come sfondo a narrative la civiltà viene meno. I am Legend, diretto da Francis Lawrence nel 2007 e Avatar, diretto da James Cameron nel 2009, sono solo alcuni degli esempi più lampanti.
La fotografia ammicca e ritrae, con sguardo arguto, scene semplici ma decontestualizzate, in sfondi dove nuovamente è il selvatico a far stridore. Bas Princen e Alexander Gronski, ad esempio, sono due tra i più notevoli fotografi le cui serie hanno indagato visivamente la questione.
Persino la politica, fa l’occhiolino al selvatico. Emblematico è il ritratto ufficiale di Barack Obama, firmato da Kehinde Wiley nel 2018, che ritrae il presidente avvolto in una folta vegetazione.
Queste e molte altre sono le manifestazioni, gli episodi, le occasioni, che nutrono il discorso, sempre più prospero ed esteso, sul selvatico (e sulla sua intrusione nella civiltà).
La città selvatica. Paesaggi urbani contemporanei, a cura di Annalisa Metta e Maria Livia Olivetti, è un volume decisamente consigliato a chi voglia immergersi nel suo dibattito e coglierne alcune delle categorie di indagine.
“Ecco dunque cos’è la ‘Città Selvatica’: una chimera, che che sfida le leggi dell’ordine costituito della separazione; un mostro, talvolta maligna talvolta benefico, che mescola e confonde elementi che non potrebbero essere legati fra loro; una strana fantasticheria, al limite dell’utopia. […] La città selvatica non si nutre di alcuna pretesa prometeica, così come, viceversa, non richiede alcuna rinuncia al progetto. Al contrario, lo auspica e lo attende.”
Soprattutto è consigliato a coloro che vogliono superare la patina superficiale – fastidiosa e ormai repellente – della verzura onnipresente, delle foreste che si arrampicano in operazioni real estate, del verde ornamentale. Una patina, sotto la quale e sotto mentite spoglie, si cela quasi sempre un retrogusto amaro di green-washing. Il volume infatti, tra le righe, smaschera questa patina della moda del ‘verde da parati’ e articola al contrario un dibattito ben più conscio, ben più profondo e soprattutto ben più utile.
Il libro approccia le questioni – tutte aperte e in corso di definizione – che gravitano attorno al tema della città selvatica: “perché e come l’urbanità e la selvaticità possono coesistere; in che modo progettare e gestire paesaggi urbani selvatici; come sia possibile abitare il selvatico e che tipo di comportamenti incoraggi; quali categorie etiche ed estetiche implichi; infine, in che misura il progetto possa contribuire a costruire città lussureggianti, dunque rigogliose, e insieme floride, attraenti e piacevoli.”
Annalisa Metta e Maria Livia Olivetti, con notevole apertura al dialogo e con molto coraggio, raccolgono indizi per tracciare delle possibili risposte a queste domande, e con una grande onestà intellettuale volutamente non orientano la curatela verso una o l’altra posizione, o, ancora meglio, verso la propria posizione; al contrario, i contributi che conformano la collettanea intrecciano sguardi e punti di vista decisamente plurali, a tratti persino divergenti, e non conducono verso una direzione univoca e non sempre collimano con quelli espressi, molto chiaramente tra l’altro, nei saggi a firma delle stesse curatrici.
Il volume si articola in quattro parti. La prima, Traiettorie, è composta dai due saggi delle curatrici, che collocano il selvatico nello spazio urbano da un punto di vista delle ricerche e delle esperienze dell’architettura del paesaggio.
Innesti raccoglie una serie di contributi di autori di diversa provenienza disciplinare: Gianni Celestini e Fabio Di Carlo, entrambi docenti di architettura del paesaggio presso la Sapienza Università di Roma, Andrea Filpa, professore di Pianificazione Urbana a Roma Tre, Teresa Galí-Izard, ingegnere agronomo e professoressa alla ETH di Zurigo, Mathieu Gontier, paesaggista co-fondatore dello studio francese Wagon Landscaping, Luca Molinari, critico curatore e professore di progettazione architettonica all’Università di Napoli, Franco Panzini, storico dei giardini e del paesaggio, Gabriele Paolinelli, professore di architettura del paesaggio a Firenze e Laura Zampieri, architetta fondatrice dello studio CZ associati di Mestre.
La terza parte del volume, Lessico, è una raccolta di voci che interpretano a mo’ di vocabolario alcuni delle parole-concetti attraverso cui esplorare il selvatico, tra le quali ritroviamo, ad esempio, “Paura/Bestia”, “Ordinario”, “Luogo”, “Innesto/Trapianto”.
La quarta sezione, Spore, curata da Eleonora Ambrosio, in realtà diffusa tra le pagine intercalando tutti i contenuti è un repertorio illustrato di venti progetti di spazi aperti nella città contemporanea, un atlante iconografico autonomo che mette in luce attraverso immagini e brevissimi testi alcune delle numerose applicazioni progettuali del selvatico in città. Tra i progetti illustrati, campioni significativi, ma di certo non esaustivi, di un ampio bagaglio di esempi possibili, ritroviamo il Percorso Meridionale del Palatino (OSA Architettura e Paesaggio, Roma, 2018), il Jardins d’Éole (Michel Corajoud, Parigi, 2007), la Rinaturazione del fiume Aire (Georges Descombes, Ginevra, in corso) e il Zaryadye Park (Diller Scofidio + Renfro, Hargreaves Associates, Mosca, 2017).
Federica Andreoni, AR Web